Regia di Josephine Decker vedi scheda film
Un film assai atipico che esplora le tematiche del controllo e della libertà giovanile
Madeline (Helena Howard) è una giovane adolescente problematica e instabile che vive a New York, in un quartiere periferico, in casa con l'apprensiva madre Regina (Miranda July), e frequenta nel tempo libero una compagnia di teatro immersivo curata da Evangeline (Molly Parker) che sta lavorando a pieno ritmo per imbastire uno spettacolo di recitazione e danza. Su questo triangolo di rapporti al femminile Josephine Decker (regista indie, oltre che attrice e performer, nota per il suo estemporaneo nudo integrale al MoMA del 2010) dirige nel 2018 Madeline's Madeline, opera assai atipica che esplora le tematiche del controllo e della libertà giovanile, con uno script da lei stessa realizzato insieme a Donna Di Novelli.
Il film dichiara da subito le proprie intenzioni mostrando fin dai primi minuti Madeline che impersona le movenze ed i versi di un gatto con la madre che comprensivamente sta al gioco e l’accarezza. L’impersonificazione del gatto si ripeterà in teatro e a casa di estranei, quasi come forma comunicativa con cui la ragazza riesce ad esprimere il bisogno di contatto fisico con gli altri. Nella testa di Madeline pare risiedere un vulcano di pensieri, desideri e creatività inespressi che si tramutano obbligatoriamente in violenti sbalzi d’umore o atti liberatori, come vestirsi da tartaruga marina appena uscita da un uovo dischiuso e correre verso il mare o ancora desiderare di essere come il cielo.
C'è un sacco di dolore nella vita
Di cosa soffra esattamente Madeline si sa ben poco, tranne quando si parla di medicine non prese e vi è un richiamo a vecchie situazioni ospedaliere. Eppure l’instabilità comportamentale della ragazza riesce a trovare parziale soluzione proprio in quel gruppo teatrale che pare consentirle di superare i suoi presunti o reali blocchi, fino al punto da aiutarla a trovare il coraggio di baciare, lei sedicenne, il primo ragazzo. Quelle sale di prova appaiono come la location di una lunga seduta psicologica collettiva dove far gruppo, socializzare, vivere la vita di riflesso e capirla interpretandola ed inscenandola, provando a calarsi in ruoli altrui, anche primitivamente animaleschi (gatti, maiali), o dando sfogo in libertà ai propri umori.
Nel gruppo di lavoro però è essenzialmente la regista Evangeline a cogliere il magnetismo di Madeline; il resto della compagnia sembra infatti mostrare segni di insofferenza per il fatto che l’idea di uno spettacolo in costruzione, partita con un ragionamento simbolico sul carcere e la limitazione di libertà (bellissimo il racconto del necessario e continuo stimolo della mente dell’ex detenuto), trovi via via il suo fulcro nel carpire elementi della vita della ragazza e dei suoi turbamenti.
L’atteggiamento di apparente complicità di Evangeline verso Madeline è ricambiato dalla fiducia dell’adolescente che le confida fatti intimi in merito al difficile rapporto materno. La madre, che dovrebbe prendersene cura, in effetti pare avere più problemi della stessa Madeline: è preoccupata, indulgente, irritabile e soprattutto ossessiva nello starle dietro (sintomatico che la imbocchi come una bimba per contrastarne l'evidente bulimia) e proprio per questo non riesce a trasferirle l'affetto che vorrebbe darle. I timori di Regina per la figlia diventano a dir poco distruttivi, quando la tratta e la fa sentire una malata, la appella come tale perfino davanti a terzi ("La vuoi in un reparto di psichiatria per altre sei settimane?“), la descrive come inabile nei rapporti scatenando la rabbia della stessa ragazza. E Madeline le ricambia essenzialmente insofferenza, momenti di odio (emblematica la visione del ferro da stiro con cui bruciare la mano della madre) e amore (più volte le dita di madre e figlia si incrociano), provando a far convergere il suo bisogno di una figura materna stabile sulla regista di teatro, pensando che le sia amica, vice-madre e mentore.
Evangeline in fondo è una donna che accoglie Madeline sotto la sua ala protettiva perché da lei assorbe e prende continua ispirazione per gli elementi creativi di cui necessita e che con tutta evidenza le mancano, proprio lei che ha una fissazione maniacale per il teatro con il quale riempie le giornate (al punto da non rispondere al telefono alle chiamate del marito), perché luogo dove compensare le proprie insoddisfazioni di vita, matrimonio e perfino di gravidanza in corso.
Ma è ad una festa a casa di Evangeline, che porta con sé la ragazza, che si scopre come la regista nutra “un grande interesse per chi non ha il controllo della propria condizione” (proprio lei sulla quale Regina dubitava chiedendosi “se abbia tutto sotto controllo”) dichiarando esplicitamente che la ragazza è per lei essenzialmente un caso di studio creativo, e facendo sorgere il fondato dubbio che la sua complicità verso la giovane sia essenzialmente un atteggiamento manipolatorio.
Nell’ultima fase il film è un crescendo di stridi emotivi. Evangeline è in difficoltà creativa e mostra chiari segni di cedimento, convincendo Madeline ad inscenare i comportamenti materni, davanti alla stessa Regina: ne risulta una messa in scena di estrema potenza drammatica, con la ragazza che mostra tutta l'oppressività subita, fino all'esplosione di rabbia sempre temuta, mentre nel cast inizia a serpeggiare un certo allarmismo.
Madeline aveva già iniziato a mostrare sospetto e insofferenza verso la regista, simulando sulla barella da psichiatria in cui era stata fatta sdraiare per riflettere sulla propria condizione un parto assai travagliato, ovviamente quello imminente di Evangeline (in sottofondo la Partita III. Courante. dell’esemble Roomful of Teeth). E nel finale la ragazza, avendo ormai ben compreso la debole portata umana della regista, agisce in modo beffardo e vendicativo, istigando il gruppo di lavoro a scatenare la propria ribellione, sottolineata nuovamente dalla musica degli stessi Roomful of Teeth con la Partita for 8 singers n 4: Passacaglia.
In ogni caos c'è un cosmo. In ogni disordine un ordine segreto
Le riprese dell’intero film sono con macchina da presa a spalla, scelta integralista della direttrice della fotografia Ashley Connor (La diseducazione di Cameron Post). Lo stile di ripresa è assolutamente caotico (ma c’è tanto metodo più che improvvisazione), con la telecamera che vaga tra gli attori, dando così l'idea della confusione indisciplinata ma anche del coinvolgimento totalizzante nel lavoro preparatorio di scena. Tanti i primi piani, primissimi piani di dettagli del viso e continue puntualizzazioni di tratti e smorfie, espressione diretta di stati d'animo, mentre le immagini oscillano tra lo sfocato e lo sdoppiato quando intendono raccontare l’altalenante stato mentale di Madeline.
Helena Howard, scoperta dalla regista ad un concorso teatrale per adolescenti, mostra un talento incontenibile, fantastica nelle sue esplosioni di gioia, negli incupimenti, nella sincerità, nei violenti ed imprevedibili sbalzi d’umore, soprattutto nell’esprimere la voglia di una adolescente di vivere ed esprimere se stessa in piena libertà e senza costrizioni.
Film che fa molto riflettere sul ruolo genitoriale e sulle incapacità di relazione con i figli, quando la volontà e la tendenza ad un soffocante controllo prevalgono sulla tutela della integrità psicologica dei ragazzi. Significativa nel film l’assenza della figura paterna nella dinamica di confronto-scontro madre-figlia-regista: le uniche tracce del padre sono in uno scantinato e paiono relegarlo ad un possibile amatore di film porno.
Complicato dunque decifrare dove regni la normalità, visto che si parte da una situazione di difficoltà di una giovane adolescente e si scopre quanto sia critico il mondo mentale delle figure femminili che la circondano, al punto da portare lo spettatore a chiedersi se quei comportamenti non siano altro che l’effetto collaterale di problematiche altrui. Questi temi non sono urlati, non vi sono drammi adolescenziali irrisolvibili, tutto procede secondo la direttrice di una scoperta di relazioni umane e forse questo è il maggior pregio del film.
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