Regia di Paul Dano vedi scheda film
Joe soffre ma non lo dà a vedere, capisce più di quello che i suoi occhi vedono, soffre per l’assenza del padre, si tormenta per l’evoluzione di carattere e di comportamento della madre, dallo sguardo assente e che si adopera affinché possa trovare una buona sistemazione per sé e per il figlio, accettando compromessi morali.
Ho visto una foto del set in cui Paul Dano, arrivato alla regia - un passo inevitabile per come ho sempre immaginato la vita e la carriera di questo giovanotto dall’aria diversa da tutti gli altri della sua generazione - che mi ha immediatamente portato nell’atmosfera di un film dove lui è in un genere di ruolo sui generis che gli tocca spesso. Il film è Prisoners (recensione) di Denis Villeneuve e la scena che si rassomiglia tanto è quella in cui Hugh Jackman, si avvicina all’auto del poliziotto Jake Gyllenhaal e si piega per parlarci col finestrino aperto. Forse è sul quel set che si sono conosciuti, forse è sul quel set che lui ha pensato a Jake come personaggio del suo primo film. Ora dunque il momento è giunto e Paul Dano si è posto aldilà della macchina da presa, scegliendo come esordio un romanzo dello statunitense Richard Ford, Incendi (Wildlife), e con coraggio e determinazione ha iniziato il suo personale percorso d’autore anche scrivendo e producendo il film assieme alla sua degna compagna Zoe Kazan (sì, Kazan, come suo nonno Elia). “Sapevo che i miei film sarebbero stati sulla famiglia dal primo momento in cui ho capito di voler fare il regista” dice Paul. “Mi sono preso delle libertà con il copione. Richard Ford mi ha dato la sua benedizione dicendomi: <<Il libro è mio, ma il film è tutto tuo>>. Allora ho deciso di cambiare il finale e ci ho messo pezzi di me stesso. Volevo che trasparisse quell’energia che ha trasmesso a me il romanzo fin dall’inizio. Già dal primo paragrafo, scritto in maniera semplice eppure dannatamente complessa, ne sono rimasto stregato: racconta un classico, come la famiglia e il sogno americano, eppure io ho sentito che aveva tanto ancora da dire.”
Che ci fosse un pezzo del regista nel film l’ho realizzato già nei primissimi minuti, allorquando mi sono annotato mentalmente che il viso del protagonista della storia, l’adolescente Joe, dal viso ovale e fondamentalmente immobile come inespressivo ma che inespressivo non è, anzi, mi richiamava alla memoria quello di Paul Dano. È lui, mi son detto, e questa storia, pur se derivata da un romanzo, è quella che avrà sentito maggiormente come più vicina a sé. Sembra di vedere lui più giovane (in verità la sua faccia mi sembra sempre la stessa da quando l’ho conosciuto sullo schermo, non cambia mai) a metà tra due genitori che non si capiscono più e che fanno solo finta di volersi bene, mentre il figlio pare rimbalzare come una pallina di pingpong tra le due racchette. Siamo nel 1960, Joe è apprensivo e preoccupato: prima è il padre Jerry che gli fornisce le iniziali apprensioni, cioè da quando, pur sentendosi stimato dai clienti, ha perso il lavoro di giardiniere al Golf Club della cittadina del Montana dove si sono appena trasferiti (Jerry è un residente irrequieto, nel senso che spesso cambia città e lavoro). Non accetta di cercar altro lavoro, si deprime, passa molto tempo nell’auto parcheggiata ai bordi della strada, a casa dorme da solo sul divano, segno evidente (ulteriore tensione per il ragazzo) che non va più d’accordo con la moglie. Poi gli tocca preoccuparsi per la mamma Jeanette, che cambia atteggiamento nei confronti di tutti: cerca lavoro per rimediare alle difficoltà finanziarie, accetta la corte di un uomo molto più grande di lei, e ci va perfino a letto quando Joe parte come pompiere precario nelle squadre che combattono il maestoso incendio che sta devastando i boschi delle vicine montagne canadesi. Joe vede il suo mondo sgretolarsi senza freni, deludendo le sue aspettative di famiglia felice. È un periodo delicato il suo, in piena adolescenza e con i risultati scolastici che si attendono i genitori. Difficoltà evidenti che danno effetti negativi nei rapporti con le sue coetanee, con il rendimento scolastico, con la stabilità affettiva.
Joe soffre ma non lo dà a vedere, capisce più di quello che i suoi occhi vedono, soffre per l’assenza del padre, si tormenta per l’evoluzione di carattere e di comportamento della madre, dallo sguardo assente e che si adopera affinché possa trovare una buona sistemazione per sé e per il figlio, accettando compromessi morali con il facoltoso concessionario di auto che ha conosciuto, da cui spera di ottenere conseguenti benefici. Ma Joe si dibatte e spera nel ritorno del padre per risolvere la strana ed inaspettata situazione creatasi con la sua assenza. Paul Dano ci racconta sia i tormenti del ragazzo, sia quelli dei due genitori, inquadrandoli in primi piani inesorabili, in cui si esaltano gli occhi dei protagonisti, finestre aperte verso la loro mente. Le inquadrature del regista, in fondo, sono molto semplici e schematiche: loro tre, con Joe al centro che li guarda e li osserva a turno, quasi per carpirne le intenzioni, sperando sempre che ciò che sta intuendo non sia vero e che si stia sbagliando. Poi vedrà che invece l’uno va via, verso gli incendi, mollando la famiglia ma anche la sua depressione, poi anche l’altra, quando una notte si accorge che lei sale sulla macchina dell’amante e si allontana. Il contesto sembra poi rovinarsi in maniera irreparabile nel momento in cui Jerry, alle prime nevicate che spengono il fuoco e la sua tormenta psicologica, torna a casa proprio quando Jeanette ha deciso di andar via di casa.
La sua tristezza conta diverse e piccole sconfitte affettive, che accettava con rassegnazione per soddisfare le attese riposte in lui. Joe infatti insisteva per insegnarli forzatamente il football che lui non amava, oppure quando la mamma a causa dell’infatuamento amoroso non lo curava più se non distrattamente e sognava altri posti, altre situazioni. E lui sempre in mezzo con la speranza esausta, con un futuro non scritto. Paul Dano contribuisce scegliendo i colori pastelli che abitualmente (accorgimento semplice per un debuttante) ricordano i favolosi anni ’60, le auto d’epoca, le strade polverose delle cittadine di confine, ma accentua l’atmosfera critica con una fotografia sbiadita, quasi sbiancata, che scolorisce i colori che partivano forti. Non è una decolorazione, ma una mancanza, una sottrazione, come il levare di affetti di cui si sentono le conseguenze, mentre in molte occasioni partono le belle ballabili canzoni d’amore di quegli anni, in cui predominavano i ritmi e le voci black. Forse sì gli manca il guizzo per dare un maggior tocco di drammaticità, forse gli manca l’acuto dell’autore di mestiere, ma chi si aspetta questo dimentica la recitazione di Dano attore, spesso sommessa ma non sottomessa, sottovoce ma non per questo ininfluente, sempre performante e determinante per la resa della sequenza. Lui forse sarà anche da regista così, ma questo è troppo presto per saperlo, vedremo. Di certo non sarà mai l’autore di storie ordinarie, come in questo confortante esordio, in un romanzo minimale che racconta tanti tumulti. Se devo scegliere qualche scena che mi ha colpito e che esplica in maniera eloquente l’humus del film e della sceneggiatura scritta con la sua partner Zoe Kazan, mi viene in mente il momento difficile e distratto della mamma Jeanette quando, seduti al tavolo di un bar, chiede al figlio quanti anni ha. Possibile che la mamma non ricordi l’età dell’unico figlio? E poi, bellissima, anche perché finale, la scena in cui Joe decide di fare una foto con l’autoscatto nello studio dove ha un lavoro part-time e prepara sotto i riflettori tre sedie: ai lati ci mette i due genitori (che si guardano interrogativi sul loro futuro) con lui al centro come un trait d'union, per godere ancora una volta quell’unità familiare che ha perso e che rimpiange, che lo aiutava a crescere come uomo.
Chi è Joe? È un diciassettenne australiano di Melbourne, Ed Oxenbould, già visto in The Visit di Shyamalan, che secondo me promette molto bene, dal viso molto particolare che ben si addice, ripeto, a rappresentare le idee del nostro regista. Il padre Joe è Jake Gyllenhaal, attore jolly per quasi tutte le stagioni, sempre adatto, affidabile quanto un macchinario tedesco di alta qualità; lei, Jeanette, invece è la delicata Carey Mulligan, ancor più delicata in quanto – era tempo che non la vedevo – più esile di una volta ma con una voce bassa e robusta che mi ha fatto dimenticare la bella e timida giovane dei primi film.
Auguro i migliori auspici di autore a Paul Dano, a cui voglio molto bene, e anche al giovane Ed, il cui viso credo vedremo ancora molte volte.
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