Regia di Paul Dano vedi scheda film
Torino Film Festival 36 – Concorso Torino 36.
Per quanto sia possibile pianificare progetti a lungo termine, conquistare un metro alla volta e arrivare a fare touchdown, soddisfacendo i canoni di quell’equilibrio che la società caldeggia, per non dire impone(va), una scossa destabilizzante è sempre in agguato. Prima o dopo, chiunque deve farci i conti, districandosi tra l’io e il noi, tra quella spinta irrefrenabile a mollare tutto per intraprendere una missione individuale e la responsabilità di non radere al suolo quanto costruito in tanti anni di sacrifici.
Il più delle volte, in breve questi moti interiori rientrano alla base lasciando delle cicatrici, in altri casi vanno incontro a un logoramento che, nonostante ogni manifestazione di buona volontà, finisce incanalato su una strada a senso unico, con abbondanza di aree di soste ma nessuno spazio per invertire la direzione di marcia.
In Wildlife, l’istituzione familiare è minata nel - e dal – suo interno, con un’ambientazione anni sessanta negli Stati Uniti più conservatori, che garantisce una resa ancora più vivida.
Montana, anni sessanta. Poco dopo essersi trasferiti in una nuova località, i Brinson vivono un periodo tormentato quando Jerry (Jake Gyllenhaal) perde il lavoro e mostra una confusione mentale preoccupante. Così, sua moglie Jeanette (Carey Mulligan) prende in mano la situazione per dare il suo contributo alle entrate familiari, ma questo non basta per migliorare l’umore casalingo. Anzi, Jerry sceglie di prestare servizio da pompiere presso i grossi incendi che stanno divampando, costringendo Jeanette a guardarsi intorno, anche per garantirsi una posizione economica almeno decente.
Nel frattempo, Joe (Ed Oxenbould), il loro figlio adolescente, vivrà sulla sua pelle questi cambiamenti, senza disporre delle armi necessarie per intaccare il corso degli eventi.
Guardandolo a scatola chiusa, non si direbbe mai che Wildlife sia un’opera prima. Di fatto, nel film diretto da Paul Dano, attore statunitense che sta dimostrando una continuità notevole da più di un decennio (per l’esattezza, da Il petroliere), tutto fila alla perfezione, al massimo si potrebbe aggiungere pure troppo, frutto di un calcolo che tiene conto anche dei millesimi che vengono dopo la virgola.
Tratto dal romanzo Incendi di Richard Ford, è sceneggiato a quattro mani dal regista stesso con Zoe Kazan, sua compagna dal 2007, senza concedere spazi a sfarfallii, mentre la fotografia di Diego Garcia - lo stesso che ha collaborato con Carlos Reygadas in Nuestro tiempo - armonizza un’impronta estetica che riporta di peso negli anni sessanta della provincia americana. Sempre rimanendo alle note fondanti, non è da tutti permettersi due protagonisti della caratura di Jake Gyllenhaal (più sobrio del solito) e Carey Mulligan (qui di pregevole intensità), senza dimenticare che il giovane Ed Oxenbould - già adocchiato in The visit - è di una bravura eccelsa, peraltro con una fisionomia che ricorda da vicino proprio Paul Dano, e in un piccolo ruolo c’è pure – viva l’abbondanza - un gigante come Bill Camp (The night of, The looming tower), più conosciuto per il suo volto che per il nome, capace di marcare il territorio nell’arco di poche scene.
Tutto questo per dire che Wildlife è proprio un signor film, il classico progetto partito con il piede giusto senza poi smarrirsi per strada, integerrimo e impietoso nella descrizione di uno sgretolamento familiare.
Proprio questa precisione, regala al componimento quella scorza robusta e cruda che evidenzia la durezza degli snodi principali, dal primo elemento d’intralcio alla serena (e finta) tranquillità familiare, fino al crollo, disponendo nel mezzo la rottura sistematica di un pezzo alla volta.
Allo stesso tempo, l’insoddisfazione continua a planare da un personaggio all’altro, obbligando a fare i conti con la vita, talvolta anche prima di avere gli strumenti necessari per arrangiarsi (vedi Joe), stabilendo un irrefrenabile effetto domino, proprio come una valanga, sulla quale si può intervenire solo dopo la conclusione del suo moto.
Per questo il finale, nella sua essenza di glaciale snapshot, è quanto mai emblematico e definitivo, una chiusura perfettamente in accordo con quanto costruito, ulteriore testimonianza della consapevolezza autoriale di Paul Dano e, consequenzialmente, di un rigore quanto mai classicheggiante, purtroppo esemplare valido anche per descrivere quegli egoismi difficili da comprendere, così come le declinazioni di ogni ragionevole offerta di compromesso, che oggi vanno per la maggiore.
Encomiabile.
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