Regia di Panos Cosmatos vedi scheda film
Come direbbe l'esimio C.C. Baxter, "experience-wise, visual-wise, otherwise-wise, it would be a 10, but story-wise, God, story-wise it's only a 2" ("sul piano dell'esperienza, sul piano visivo eccetera, sarebbe da 10, ma sul piano narrativo, Dio, sul piano narrativo è un 2"). Un 2 stiracchiato.
Il solito revenge movie da cinema anni ‘70-’80 (guarda caso ambientato proprio nel 1983, per i nebulosi ed impervi sentieri delle “Montagne dell’Ombra”), a mezza via tra una sorta di assurda operazione nostalgia (?) e un delirante crogiolo fumante di citazioni e rimasticature in chiave parossistica ed esasperata.
Già i titoli di testa, con di sottofondo Starless dei King Crimson, “settano”, in qualche modo, il tono del film. Maniacale, delirante, sconvolgente, sovente allucinante, psichedelico come se si fossero assunti degli acidi. Un’esperienza visiva e sonora totalizzante, totalmente straniante, in particolar modo nella prima parte, capace di regalare una manciata di scene, anche solo di brevi inquadrature, impressionanti, ammalianti, fin stupefacenti, un film capace, inoltre, di creare un’atmosfera unica, che però purtroppo, al tirar delle somme, si risolve in poca, pochissima cosa.
Non solo “sul piano della trama”, ma proprio nell’insieme. Alla lunga tutti i deliri visivi propinati allo spettatore (tra abusi di “color correction” [che rende predominante il rosso], luci intermittenti, sovrimpressioni, forse addirittura giochetti sulla persistenza dell’immagine sulla retina, di certo giochetti sullo stato di alterazione della coscienza [tra le altre, da citare almeno la lunga scena del monologo del leader Jeremiah Sand, che espone molto eloquentemente la propria idea del mondo]), stancano, sfiancano, e ciò si fa particolarmente sentire nella prima parte.
Nella seconda, invece, si scivola in uno slasher sempre piuttosto eccentrico in certi punti, persino affascinante (suggestiva, ad esempio, l’immagine della chiesa avvolta dalle fiamme), ma, gratta gratta, alquanto convenzionale e scontato. Certo, mantiene alta l’attenzione, in misura maggiore della parte precedente, ma in fondo si accontenta di questo, e l’unico momento interessante risulta essere quello del faccia a faccia col “santone” che si lancia in un nuovo monologo via via sempre meno “metaforico”.
Per il resto, viene proposta nulla più che un’orgia di sangue e urla (memorabile la scena del bagno, anche per sprezzo del ridicolo da parte di un indomito Nicolas Cage) come se ne sono viste tante altre. Che si conclude all’insegna non si sa se dell’ambiguità o se piuttosto dello sberleffo (vedi l’ultimissima inquadratura).
Mandy è, insomma, un film che pare impossibile costringere entro gli angusti confini di un unico “genere”, un film che si diverte, a quanto sembra, a giocare con gli spettatori, a stupirli, stranirli, disgustarli, talvolta persino “divertirli” (aperta la questione, comunque, del se si tratti, in certe scene, di umorismo macabro, dunque volontario, o di ridicolo involontario), un film un po’ kitsch, un po’ trash, un po’ splatter un po’ gore, insomma, un po’ di tutto, e (forse) di tutto niente.
In ultima analisi difficile, molto difficile da valutare, pur tenendo conto di quanto appena illustrato, effettivamente uno dei film più ardui da valutare della stagione. Si potrebbe optare per un “discreto”, equivalente ad un 6 in scala 10 e un 3 in scala 5, ma il tutto rimane piuttosto in sospeso. Perché Mandy è film specificatamente pensato per risultaredivisivo, il classico film che “o si ama o si odia”, per quanto tale espressione possa suonare come un cliché, quel genere di film che non si deve far altro che “sperimentare” per vedere cosa se ne ricava.
Gli amanti del genere forse applaudiranno, agli altri rimarrà altrettanto probabilmente una sensazione come di stordimento, nonché il neanche troppo vago sospetto di aver assistito a qualcosa di non poi così epocale, un’operazione furba, furbescamente congegnata, ma in fondo poco appassionante; un abile teatrino grandguignolesco ed esagitato messo in piedi per celare la macroscopica vacuità di fondo. Non tanto “style over substance”, lo stile che prevale sulla sostanza, quanto piuttosto la sostanza, psicotropa, che inghiotte tutto, stile compreso. La tentazione di realizzare un film psichedelico, sotto LSD, che si è divorata ogni altra cosa. Coerenza, narrazione, regia (perché il risultato finale è più merito del lavoro di post-produzione che non di particolari trovate fulminanti del regista).
In ogni caso, bisogna ammettere che, di tanto in tanto, il film di Cosmatos riesce a farsi veramente inquietante. Forse ciò basterà ad attrarre una fetta di pubblico.
E comunque memorabile il Jeremiah Sand di Roache, il leader della setta “à la Manson” dei “Bambini della Nuova Alba”, che si è pure creato la sua sinfonia ad effetto (realmente reperibile in rete alla voce “Amulet of the Weeping Maze”). Imprescindibile il design sonoro architettato a partire dalle sonorità congegnate da Jóhannsson (morto nel febbraio 2018 e qui al suo ultimo film) che contribuisce e molto alla creazione dell’atmosfera. E, disseminate nel marasma complessivo, geniali, meglio genialoidi certe trovate che emergono (vedi il “Grana Goblin”).
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