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Mandy

Regia di Panos Cosmatos vedi scheda film

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La recensione su Mandy

di ilcausticocinefilo
6 stelle

 

 

locandina

Mandy (2018): locandina

 

 

Come direbbe l'esimio C.C. Baxter, "experience-wise, visual-wise, otherwise-wise, it would be a 10, but story-wise, God, story-wise it's only a 2" ("sul piano dell'esperienza, sul piano visivo eccetera, sarebbe da 10, ma sul piano narrativo, Dio, sul piano narrativo è un 2"). Un 2 stiracchiato.

 

Il solito revenge mo­vie da cinema anni ‘70-’80 (guarda caso ambientato proprio nel 1983, per i nebulosi ed impervi sentieri delle “Monta­gne dell’Ombra”), a mezza via tra una sorta di assurda ope­razione nostalgia (?) e un delirante crogiolo fumante di cita­zioni e rimasticature in chiave parossistica ed esasperata.

 

Già i titoli di testa, con di sottofondo Starless dei King Crimson, “settano”, in qualche modo, il tono del film. Ma­niacale, delirante, sconvolgente, sovente allucinante, psi­chedelico come se si fossero assunti degli acidi. Un’espe­rienza visiva e sonora totalizzante, totalmente straniante, in particolar modo nella prima parte, capace di regalare una manciata di scene, anche solo di brevi inquadrature, impres­sionanti, ammalianti, fin stupefacenti, un film capace, inol­tre, di creare un’atmosfera unica, che però purtroppo, al ti­rar delle somme, si risolve in poca, pochissima cosa.

 

 

Andrea Riseborough

Mandy (2018): Andrea Riseborough

 

 

Non solo “sul piano della trama”, ma proprio nell’insieme. Alla lunga tutti i deliri visivi propinati allo spettatore (tra abusi di “color correction[che rende predominante il rosso], luci intermittenti, sovrimpressioni, forse addirittura giochet­ti sulla persistenza dell’immagine sulla retina, di certo gio­chetti sullo stato di alterazione della coscienza [tra le altre, da citare almeno la lunga scena del monologo del leader Je­remiah Sand, che espone molto eloquentemente la propria idea del mondo]), stancano, sfiancano, e ciò si fa particolarmente sentire nella prima parte.

 

Nella seconda, invece, si scivola in uno slasher sempre piuttosto eccentrico in certi punti, persino affascinante (suggestiva, ad esempio, l’immagine della chie­sa avvolta dalle fiamme), ma, gratta gratta, alquanto convenzionale e scontato. Certo, mantiene alta l’attenzione, in misura maggiore della parte precedente, ma in fondo si accontenta di questo, e l’unico momento interessante risulta essere quello del faccia a faccia col “santone” che si lancia in un nuovo monologo via via sempre meno “metaforico”.

 

Per il resto, viene proposta nulla più che un’orgia di san­gue e urla (memorabile la scena del bagno, anche per sprezzo del ridicolo da parte di un indomito Nico­las Cage) come se ne sono viste tante altre. Che si conclude all’insegna non si sa se dell’ambiguità o se piuttosto dello sberleffo (vedi l’ultimissima inquadratura).

 

 

Ned Dennehy

Mandy (2018): Ned Dennehy

 

 

Mandy è, insomma, un film che pare impos­sibile costringere entro gli angusti confini di un unico “genere”, un film che si diverte, a quanto sembra, a giocare con gli spettatori, a stupirli, stranirli, disgustarli, talvolta persino “divertirli” (aperta la questio­ne, comunque, del se si tratti, in certe scene, di umorismo macabro, dunque volontario, o di ridicolo in­volontario), un film un po’ kitsch, un po’ trash, un po’ splatter un po’ gore, insomma, un po’ di tutto, e (forse) di tutto niente.

 

In ultima analisi difficile, molto difficile da valutare, pur tenendo conto di quanto appena illustrato, effettivamente uno dei film più ardui da valutare della stagione. Si potrebbe optare per un “discreto”, equivalente ad un 6 in scala 10 e un 3 in scala 5, ma il tutto rimane piuttosto in so­speso. Perché Mandy è film specificatamente pensato per risultaredivisivo, il classico film che “o si ama o si odia”, per quanto tale espressione possa suonare come un cliché, quel genere di film che non si deve far altro che “sperimentare” per vedere cosa se ne ricava.

 

 

Nicolas Cage

Mandy (2018): Nicolas Cage

 

 

Gli amanti del genere forse applaudi­ranno, agli altri rimarrà altrettanto probabilmente una sensazione come di stordimento, nonché il nean­che troppo vago sospetto di aver assistito a qualcosa di non poi così epocale, un’operazione furba, fur­bescamente congegnata, ma in fondo poco appassionante; un abile teatrino grandguignolesco ed esagi­tato messo in piedi per celare la macroscopica vacuità di fondo. Non tanto “style over substance”, lo stile che prevale sulla sostanza, quanto piuttosto la sostanza, psicotropa, che inghiotte tutto, stile com­preso. La tentazione di realizzare un film psichedelico, sotto LSD, che si è divorata ogni altra cosa. Coerenza, narrazione, regia (perché il risultato finale è più merito del lavoro di post-produzione che non di particolari trovate fulminanti del regista).

In ogni caso, bisogna ammettere che, di tanto in tanto, il film di Cosmatos riesce a farsi veramente inquietante. Forse ciò basterà ad attrarre una fetta di pub­blico.

 

E comunque memorabile il Jeremiah Sand di Roache, il leader della setta “à la Manson” dei “Bambini della Nuova Alba”, che si è pure creato la sua sinfonia ad effetto (realmente reperibile in rete alla voce “Amulet of the Weeping Maze”). Imprescindibile il design sonoro architettato a partire dalle sonorità congegnate da Jóhannsson (morto nel febbraio 2018 e qui al suo ultimo film) che contribuisce e molto alla creazione dell’atmosfera. E, disseminate nel marasma complessivo, geniali, meglio genialoidi certe trovate che emergono (vedi il “Grana Goblin”).

 

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