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Assassination Nation

Regia di Sam Levinson vedi scheda film

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La recensione su Assassination Nation

di scapigliato
9 stelle

Film potente e importante. In era trumpiana, Sam Levinson fotografa e soprattutto racconta un con linguaggio nuovo e aggressivo che raffinerà poi nella successiva Euphoria (2019-in corso), la deriva nichilista, violenta, ignorante, totalitarista, puritana, all white trash, terribilmente wasp dell’America del XXI secolo, che è poi il serbatoio da cui il resto del mondo attinge mode, immagini, pose e ideologie. Importante, dato che può ben essere un film a tesi, l’incipit che fa da indice tematico della storia e delle storie a cui lo spettatore assisterà da lì in avanti, che è poi, dopotutto, un’antologia delle mostruosità sociali del contemporaneo, contenuti reputati ironicamente e programmaticamente offensivi, temi o motivi che siano: bullyng, blood, abuse, classism, death, drinking, drug use, sexual content, toxic masculinity, homophobia, transphobia, trans, nationalism, racism, kidnapping, murder, attempted, the male gaze, rape, sexism, def sexism, swearing, torture, violence, gore, wheapon, fragil male egos.

Non è nemmeno un caso che la cittadina-Paese che rappresenta in microcosmo l’America tutta si chiami Salem, con tutti i corsi e ricorsi sia storici che tematici legati al puritanesimo e a una ideologia pericolosamente conservatrice da cui, e lo sa bene Stephen King, nascono i peggiori incubi e i mostri più pericolosi. Così come nel film si può rintracciare il tema della transfobia, caro a Levinson, e più strutturato poi in Euphoria; oppure il sottile gioco tematico e di casting azzeccato, tanto da sovrapporre la figura del maschio alfa, sessista, omofobo, dalla mascolinità fragile e tossica con quella dell’attore stesso, Cody Christian, volto di Teen Wolf (Jeff Davis, 2011-2017) e celebre per video hot circolati in rete dove mostrava il membro durante una masturbazione, tra l’altro non facendo proprio una bella figura in quanto a virilità. Ergo, il gioco immaginifico di Levinson, anche grazie al resto del cast, tra cui Bill Skarsgård e la modella transgender Hari Nef a cui farà eco il doppio di Hunter Schafer, altra modella transgender, pilastro della stessa serie tv HBO, è un gioco di azzardi politici e sociali praticati e raccontati attraverso l’uso di temi e motivi consolidati dell’immaginario cinematografico contemporaneo.

Il successo sociopolitico del film sta appunto in questa natura ibrida tra la saga di The Purge (2013, 2014, 2016, 2018, 2020, 2018-in corso) e Spring Breakers (Harmony Korine, 2012), tra la violenza puritana americana di radice bianca e conservatrice e l’adolescenza sballata, atomizzata, sterilizzata, disinteressata, apatica e autodistruttiva di questi primi vent’anni del nuovo secolo. Un film quindi che non può passare inosservato, anche per le grandi qualità visive che Levinson sa ben utilizzare per estetizzare l’impianto iconografico come Refn, Cianfrance e altri registi “estetici” di oggi – anche se poteva osera molto di più con i corpi degli attori – soprattutto perché il finale, come in Revenge (Coralie Fargeat, 2017), ci restituisce tutti i torti commessi in una catarsi che ci auguriamo arrivi in ogni angolo del mondo attraverso l’esercizio della legalità e della giustizia.

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