Regia di Debra Granik vedi scheda film
Prima di "Nomadland", prima di Chloé Zhao. Debra Granik realizzava nel 2018 un interessantissimo film indipendente, fortunatamente approdato in Italia ma passato abbastanza in sordina, che aveva la prima al Sundance Film Festival, fucina degli autori emergenti americani, e un successivo passaggio al Festival di Cannes, Quinzaine des Réalisateurs.
Come "Nomadland", come Chloé Zhao.
"Leave no trace", tratto dal libro My Abandonment di Peter Rock, mai approdato nelle nostre librerie, raccontava l'America dei reietti, quelli che proprio non ce la facevano a stare al passo, a mantenere il ritmo del progresso, ad ottenere il successo reclamizzato dal sogno americano. Quelli che finivano, inevitabilmente, per soccombere senza "Lasciare traccia'.
Will (Ben Foster) e Tom (Thomasin McKenzie) sono padre e figlia. Sono nomadi ma senza caravan, senza un tetto, senza lavoro, alla deriva. Vivono ai bordi della società, in mezzo al bosco, in una tenda impiantata in un campo di fortuna occultato alla vista degli estranei. Si nutrono di funghi, radici, erbe e quel poco che riescono a comprare vendendo le medicine di Will, che per inciso ha perso la salute nell'esercito ed è preda di un forte stress post-traumatico, non curato, che l'ha spinto ad abbracciare la natura e voltare le spalle al mondo. La figlia segue il padre come un animale selvatico, a suo agio nella foresta fredda e piovosa. Selvatica forse, stupida no. Legge e studia, a modo suo, senza frequentare alcuno, oltre al genitore che ama e accudisce. Ha imparato a cucinare e ad accendere un fuoco, a lavarsi con poca acqua, a risparmiare le razioni, cosa che le risulterebbe utile in caso di flagelli nucleari o tsunami ma che non servono a tessere i rapporti sociali di cui avrebbe bisogno una ragazzina di tredici anni.
Anche i più bravi a nascondersi, ad occultarsi nell'ombra, finiscono, però, per percepire la luce e volerla vedere. Ne rimangono abbagliati, ne vogliono assorbire il calore. Accalappiati dai servizi sociali padre e figlia vengono riportati alla luce, infilati in una casa, costretti a vivere sotto un tetto, nello stesso luogo, con comfort superflui. A Will viene offerto un lavoro, a Tom la scuola e una vita da adolescente. Ma il richiamo della foresta, la sete di libertà, il male interiore scombinano ancora i piani. Di nuovo bosco, freddo, notti all'addiaccio, ricoveri di fortuna in cottage di montagna finché le cose cambiano definitivamente, guarda caso dentro ad un camper, in uno squallido campeggio dove Dale (Dale Dickey) affitta le proprie case su ruote ad altri derelitti che non amano la luce e vogliono nascondersi nell'oscurità. Dale fa trovare pasti caldi e delle stupidissime arance. Troppe le cure ricevute per rinunciarvi. Un villaggio e una comunità, per quanto aliena dal mondo è l'antidoto alla solitudine, l'anestesia che attenua il dolore di un passato irrequieto e l'ansia di un presente problematico.
Quando "Nomadland", quando Chloé Zhao.
Debra Granik raccontava nel 2018 la fuga dal presente, la fuga dall'oppressione scaturita da un sistema che non ammetteva povertà e fallimenti, che non accettava l'insuccesso personale.
Il rapporto tra padre e figlia è centrale nel film della regista del Massachusetts. Tutti gli altri sono intorno, sul bordo di un ipotetico cerchio. Esistono ma non contano. A differenza di "Leave no trace", la protagonista di "Nomadland' è il fulcro del racconto e gli altri non solo esistono ma contano, entrano nel cerchio. In Nomadland gli zingari della roulotte sono artefici del destino che plasmano con le proprie mani, accettando le regole del gioco, lavorando in ogni dove e decidendo del proprio futuro. Non così per Will e Tom, gli zingari della foresta. Sono la malattia e il disagio psichico a decidere le sorti della famiglia ed è questa la motivazione di tanto peregrinare. L'equilibrio tra padre e figlia si spezza proprio quando Tom decide che la propria vita non può dipendere da una variabile che non riesce a controllare. Granik concentrava la propria attenzione sul delicato rapporto tra un'adolescente che si apriva al mondo e si staccava dall'ala protettiva della famiglia, in un contesto ancor più delicato in cui il disagio economico e sociale amplificavano le distanze tra uomo e donna, padre e figlia. La famiglia si spezzava ma non l'amore genitoriale/filiale. Granik riusciva ad evitare le sacche di facili pregiudizi e scontati giudizi morali sul ruolo della famiglia.
Ricordo uno psicologo dire ad una conferenza a cui assistetti che i genitori raggiungono il loro obiettivo educativo quando hanno dato ai figli gli strumenti per vivere da soli. La separazione è inevitabile e salvifica. Per Debra Granik Will aveva raggiunto il suo obiettivo. Aveva passato alla figlia gli insegnamenti sufficienti a permetterle di librarsi nell'aria come un uccello. Will non era un fallito ma un genitore, che pur nelle difficoltà, era riuscito a crescere un adulta. Forse "Winter's bone" appartiene al minuscolo sottoinsieme "folgorazione cinematografica" per cui questo "Leave no trace" sembra perdere qualcosa del cinismo precedente nella rappresentazione sociale del popolo americano. Il coraggio però non manca ed i temi trattati sono sempre affini. Entrambi i film presentarono all'uscita, ad ogni modo, un comun denominatore, due giovani volti di sicuro talento. Se Jennifer Lawrence è diventata una diva Thomasin McKenzie ha tutte le chance per diventarlo. Se fossi un'attrice emergente vorrei senz'altro finire tra le mani di Debra Granik. Se fossi un produttore vorrei finire nelle mani di danarosi distributori che decidono le sorti di un film decidendone i tempi dell'uscita e l'ammontare di danaro da investire nel lancio mediatico.
Come "Nomadland", come Chloé Zhao.
Chili TV
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