Regia di Debra Granik vedi scheda film
Un film che a tratti brucia al calor bianco, emozionante e commovente, e a tratti sorprendente, e che, se pian piano si spegne consumandosi, nel farlo, però, riscalda.
La storia della vita sulla Terra, ovvero: sopravvivenza e crescita (surviving e growing up), con zaino in spalla (significativa differenza, e anzi e meglio vero e proprio percorso inverso) in vece dell'Hurt Locker:
- “Dad?”
- “What?”
- “I'm hungry!”
• Passo.
La 4a prova nel lungometraggio - dopo due opere di finzione (“Down to the Bone” e “Winter's Bone”) e un documentario (“Stray Dog”) - di Debra Granik (classe 1963), da lei sceneggiata (e co-prodotta, come sempre) con Anne Rosellini, traendola dal romanzo di “non-fiction” (che, NdA, non ho letto) "My Abandonment" di Peter Rock (amato ed elogiato da Ursula K. Le Guin e James Ellroy) del 2009, si muove nel territorio del Ritorno alla Natura [principiato e canonizzato da Ralph Waldo Emerson (1803-1882) con “Natura: Condotta di Vita”) e Henry David Thoreau (1817-1862) con “Walden, ovvero: Vita nei Boschi” e “Disobbedienza Civile”] - senza che la Fine del Mondo sia già in corso (si considerino a tal proposito: “InTo the Forest”, “the Survivalist”, “It Comes at Night”) -, un argomento trattato in molti lavori del cinema recente [a incominciare dal “Walkabout” di Nick Roeg e dal dittico malickiano composto da “BadLands” e “Days of Heaven” [in un certo senso proseguito con “the Thin Red Line” e “the New World”), sino a "the Mosquito Coast" di Peter Weir] in modalità del tutto eterogenee fra loro
{“InTo the Wild” di Sean Penn (tratto dal saggio-biografia su Christopher “Alexander SuperTramp” McCandless di Jon Krakauer), che compie col cinema lo stesso percorso che Peter Rock ha intrapreso con la letteratura), “CastAway On the Moon” di Hae-jun Lee, “Mud” di Jeff Nichols, “Two Gates of Sleep” di Alistair Banks Griffin (percorso inverso, simile a quello di “Winter's Bone”), “MoonRise KingDom” di Wes Anderson, “Captain Fantastic” di Matt Ross, “Vie Sauvage” di Cédric Kahn, “Couple in a Hole (Sauvages)” di Tom Geens, “the End” di Guillaume Nicloux, e soprattutto il cinema di Kelly Reichardt, se pur collateralmente, con “Old Joy” (assonanza momentanea), “Wendy and Lucy” [qui declinato “T(h)om(asin) e Willie Nelson / Boris”, ovvero: di treni - saltando sui vagoni merci come occasionali hobo moderni - e di cani: “Sai, il mio amico Boris mi ha aiutato parecchio. Penso che a tuo padre piacerebbe averlo intorno. Può sentire quando qualcuno è irrequieto. Può dargli un colpetto e svegliarlo dai suoi sogni. Con me lo fa.”] e “Night Moves”},
ma lo fa con una forza propria [che rimanda, costituendone un tassello d'unione, a due delle sue precedenti opere già citate: la (più o meno) wilderness del “Winter's Bone” di Daniel Woodrell, muovendosi dagli altopiani delle Ozark Mountains del MidWest (Missouri) alle Montagne Rocciose (Oregon e Washington) della costa ovest pacifica (foreste pluviali temperate), e il documentario biker & redux “Stray Dog”, passando dal VietNam al post-Desert Storm (Iraq o/e Afghanistan), sempre Post-Traumatic Stress Disorder (la scena con gli elicotteri in sottofondo/lontananza) è: e ad assistere ai primi ¾ dei 110' totali (in cui la regista affronta e rielabora territori già precedentemente cartografati, ma lo fa con rara finezza e profondità) non possono che venire in mente altri due autori e due tipologie di cinema del reale: il maestro Frederick Wiseman (la Macchina Statale all'opera, il “Welfare” al lavoro) e il vero come la finzione di Roberto Minervini, da “Low Tide” a “Louisiana: the Other Side”, passando per “Stop the Pounding Heart”, ai quali si potrebbero aggiungere, a spaglio, con un esercizio non del tutto sterile né gratuito, altri nomi ancora, ad esempio quelli di: Werner Herzog, J.-P. e L. Dardenne, Edoardo Winspeare, Alice Rohrwacher...] insolita e affascinante: “Leave No Trace” è una pellicola (uso ancora questo termine desueto per rafforzare la metafora: in realtà Granik gira in digitale utilizzando una Alexa Mini della Arri, molto maneggevole ed utile per stare addosso ai personaggi in ambienti, se non impervi, difficoltosi) che brucia al calor bianco del bisogno reciproco (la prova scientifica dell'amore), e nel farlo va pian piano spegnendosi - terminando (dopo ch'era iniziato brucando acetoselle e preparando il fuoco incendiando con le scintille di un acciarino le stoppie secche trasferendolo poi a rametti truciolati) però s'un virgulto riccioluto di felce in gemmazione (altre produzioni recenti che terminano germogliando: “il Vestito da Sposa”, “War of the Worlds”, “the Descent”, “Long WeekEnd” (1978/2008), “Essential Killing”) -, consumando il proprio ardore: ma nel bruciarsi, però, ci riscalda.
• Note.
Fotografia di Michael McDonough (“Winter's Bone”), montaggio di Jane Rizzo (“Ain't Them Bodies Saints”), musiche di Dickon Hinchliffe (“Vendredi Soir”, “Red Riding: 1980”, “Winter's Bone”, “Texas Killing Fields”, “Luck”, “Locke”, “Out of the Furnace”, “Peaky Blinders”)
Se Ben Foster (“the Messenger”, “Rampart”, “Prometheus”, “Ain't Them Bodies Saints”, “Hell or High Water”, “Hostiles”, “Galveston”) - nel ruolo di un novello “Going After Cacciato” (Tim O'Brien) giunto finalmente/concretamente a casa [dai giardini dei Campi Elisi al Forest Park, un parco urbano di Portland che si estende lungo e stretto (10x2 km: 20.000 ha / 20 km²) sulle West Hill] - offre una convincente ottima interpretazione (interessante e ben resa l'indecisione del suo personaggio di fronte al Minnesota Test: vuoi un po' per la situazione di separazione che lo ha reso psicologicamente vulnerabile, vuoi un po' perché forse s'è arruolato volontario, “I Want You!”/”Join the Navy!”, 'na firma e via senza troppa burocrazia e Inventari MultiFasici della Personalità), la giovane post-millennials Thomasin Harcourt McKenzie (2000) gli tiene testa e costituisce la controparte perfetta di questo valzer di esistenze / tango di anime che orbitano attorno a un baricentro comune [si potrebbe sperare per lei – è un auspicio e un augurio – che l'esperienza vissuta sul suo primo set importante guidata da Granik le porti anche solo metà della fortuna (la parte buona) che ha portato a Jennifer Lawrence essere diretta dalla regista in “Winter's Bone”, e a leggere i titoli dei prossimi progetti (“the King” di David Michôd, “the True History of the Kelly Gang” di Justin Kurzel, “JoJo Rabbit” di Taika Waititi, “Top Gun: Maverick” di Joseph Kosinski) in cui è coinvolta…bah/beh/boh/mah…].
Completano il cast un'attrice semi-esordiente (Dana Millican, l'assistente sociale) e una veterana, già in “Winter's Bone” (Dale Dickey, la hippie gestore del campo caravan), entrambe eterogeneamente bravissime.
• Bivio.
PdV di lui, padre. Scena finale iconica ma sorprendente, quasi didascalica ma potente. Uno scarto di lato: ecco! E uno stesso orizzonte visto da uno scorcio dissimile, una prospettiva diversa, una posizione diseguale, un'angolazione differente.
PdV di lei, figlia. È iniziata per gioco (tenerezza e necessità, affetto e dipendenza), quest'avventura, e poi è continuata a lungo. È così che fa la vita, no?
* * * * (¼)
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