Regia di Debra Granik vedi scheda film
Mettendo sul piatto con efficace capacità descrittiva e dialoghi privi di retorica la lotta impari dell'uomo contro le forze normalizzatrici che assediano un dominio silvestre ritagliato al di fuori del perimetro urbano, la fuga dalla moderna civiltà dei consumi e dalle sue ingiustizie è un'utopia destinata al fallimento ed alla rovina.
Vivere fra i boschi di un parco nazionale vicino Portland è per il veterano Will e la figlia adolescente Tomasine, l'unico modo in cui l'uomo sente di potersi ancora rapportare con la società e con un mondo di bisogni superflui che vive come una opprimente e angosciosa prigionia. Quando vengono scoperti dalle autorità, inizia per loro una trafila burocratica fatta di colloqui psicologici, assistenti sociali e reinserimento istituzionale. Il desiderio di libertà e la fuga verso un nuovo Eden sono però sempre a portata di mano.
Learn to do by...doing
La decrescita felice e la ricerca di un rapporto con la natura più autentico ed essenziale, sono tematiche facilmente cooptate dal cinema Indie del nuovo millennio; la risposta quasi naturale ad una crisi di identità che ha investito la società americana (e non solo) alle prese con le sperequazioni economiche e sociali ai tempi delle guerre per l'oro nero e del più grande default finanziario causato da politiche neo-liberiste dissennatamente bipartisan. Se è facile pensare al paradigma storia vera- racconto (auto) biografico - traslazione cinematografica che ha decretato la fortuna nazional-popolare e il variegato merchandising del pluriprepiamo esordio di Into the Wild o il facile appeal del più recente padre chioccia del Viggo Mortensen di Captain Fantastic, esempi più defilati di questa deriva antisistema vanno ricercati negli Indie drama settari e comunardi di The East e Martha Marcy May Marlene, dove l'utopia di una fuga dalla società celano l'alienazione di chi non sa più vivere secondo regole precostituite, cercando di ristabilire un nuovo ordine e un delirante dispotismo che non può che risolversi nell'ingiustizia e nella rovina (The Mosquito Coast). Traendo spunto dalla sottigliezze del soggetto letterario, qui le ragioni del reduce interpretato dal convincente Ben Foster (Lone Survivor) sono assai più sfumate (un ritaglio di giornale verso la fine del film vorrebbe spiegare qualcosa), mettendo sul piatto con efficace capacità descrittiva e dialoghi privi di retorica la lotta impari dell'uomo contro le forze normalizzatrici che assediano un dominio silvestre ritagliato al di fuori del perimetro urbano, insidiando una responsabilità genitoriale combattuta tra la gestione delle risorse trofiche e l'educazione filiale, tra gli impalpabili fantasmi della memoria e le concrete minacce dell'istituzionalizzazione coatta. Diviso idealmente in tre parti (la vita nei boschi, il reinserimento, la fuga in un nuovo Eden) è un film che pur nello schematismo narrativo ed in qualche buco della storia, si confronta con una realtà dolorosa e urgente, chiedendosi se sia giusto e possibile vivere isolati da una società che si avverte come una gabbia (come la tela di ragno che fa capolino nelle inquadrature iniziali e finali) e se questo malinteso concetto di libertà possa essere imposto a chi (la figlia di una omonima e delicata Thomasin McKenzie) avrebbe diritto ad una maggiore stabilità e sicurezza familiari; la risposta passa da un distacco forzato, dalla solita comunità hippie che rappresenta il trait d'union tra antipodiche filosofie di vita e dalla bellissima scena finale della fuga silvestre di un animale evoluto che decide di farsi di nuovo largo tra il fitto sottobosco di felci e rosacee da cui era emerso all'alba della sua primigenia civiltà.
Presentato al Sundance Film Festival 2018 ed al Festival di Cannes 2018, è stato premiato per la migliore sceneggiatura al nostrano ed insulare Taormina International Film Festival 2018.
I pledge my head to clearer thinking,
my heart to greater loyalty,
my hands to larger service,
and my health to better living,
for my club, my community,
my country, and my world
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