Regia di John Cassavetes vedi scheda film
Lontano dai bagliori rutilanti di Hollywood c'è un cinema diverso, sperimentale, che genera da mezzi scarsi, sfruttando luci naturali e scenografie preesistenti. Un cinema povero tecnicamente in cui l'improvvisazione gioca un forte impatto sul risultato finale dando forma ad idee originali e difficilmente vendibili. La sceneggiatura, spesso, si riduce a tracce buttate là dal regista, gli attori vanno a braccio, dando sfogo alla loro personalità, ai loro stessi pensieri. Questi giovani ed entusiasti attori, presi dalla strada, dalle scuole di recitazione, spendono le proprie energie per appropriarsi del sogno americano, il cinema delle masse, Hollywood. Sono, perciò, ebbri di quell'entusiasmo professionale e artistico che serve ad abbracciare idee nuove e percorrere sentieri non convenzionali che possano far decollare una carriera.
Le loro interpretazioni sono spontanee, in assenza di una messa in scena precisa e rigorosa e, spesso, si registra la sovrapposizione tra interpreti e i personaggi. Ma non c'è solo una recitazione più naturale ed un processo produttivo in divenire che alimenta nuove idee in corso d'opera. Nelle produzioni indipendenti c'è soprattutto l'esigenza di battere nuovi sentieri trattando argomenti ignoti allo star system, molto spesso considerati un tabù.
Il fenomeno del cinema indie raggiunse grandi numeri soprattutto a partire dagli anni '80 ma come sempre succede il successo ha radici lontane. Correva l'anno 1957 quando l'attore John Cassavetes fondava il suo laboratorio di recitazione,” l'Actor Workshop" a New York. Lontano da Hollywood ma anche da Broadway. Conseguenza di ciò fu l'opera "saggio" "Shadows" che Cassavetes girò due volte. La prima trovò qualche rara proiezione ma ben presto se ne persero le tracce. Cassavetes, del resto, l'aveva già abbandonata al suo destino, insoddisfatto, per girarne una seconda più snella e priva di noiosi intellettualismi. La seconda fu presentata alla Mostra di Venezia nel 1960 mentre l'orginale fu ritrovata quarant'anni dopo, in buono stato, tra gli oggetti smarriti della metropolitana da uno studioso del regista che immagino si sia fatto la pipì addosso dalla felicità per aver trovato il Graal perduto.
“Shadows” era un laboratorio e doveva affermare un nuovo modo di fare cinema. Credo sia diventato una sorta di manuale, insieme ad altre opere newyorkesi dello stesso periodo, per il cinema indie dei decenni successivi.
Per chi scrive il motivo della longevità di questa pellicola in bianco e nero va ricercato, non solo nella "jam session" orchestrata da Cassavetes, ma nel coraggio di affrontare un tema, il razzismo, molto scottante per l'epoca, in tutti gli strati della società americana, con un linguaggio fresco ed uno stile minimalista in cui la fotografia pastosa e monotinta dà il senso di una ricerca autentica sulla giovinezza in una città allegra, caotica ma anche spiantata.
"Shadows" è un frammento di vita per tre fratelli afroamericani di New York. Simbolicamente ognuno di essi ha la pelle di gradazioni diverse. Hugh è nero come l’ebano ed è un cantante in declino. Fatica a trovare ingaggi ed il suo amico e manager deve intermediare spesso per trovare lavoro al suo bizzoso assistito che non accetta compromessi. La pelle di Ben è color cremino. È un musicista ma preferisce bighellonare per New York con un paio di amici bianchi anziché suonare la tromba insieme al fratello. Lelia infine è color vaniglia. Frequenta i salotti culturali della città finché si innamora di una ragazzo bianco iniziando una tormentata love story.
Le ombre di Cassavetes offuscano la via dei tre protagonisti. Tre ragazzi che non sanno come indirizzare le proprie vite. Hugh non è più al passo con i tempi, Ben non è carne ne pesce, ne bianco ne nero. Lelia viene presa per bianca, un vantaggio lí per lí ma alla prova dei conti un handicap.
La storia di Lelia è la più rivoluzionaria, cinematograficamente parlando. Consente al regista di infilare nello stesso letto due personaggi di etnia diversa in una sequenza post coito, piena di rimpianti e dubbi, in cui il sesso viene trattato con grande naturalezza ed efficacia, in un momento storico in cui il codice Hayes vieta a chiunque di rimanere sotto le stesse lenzuola. La sequenza "post orgasmic chill" lascia intuire che il rapporto consumato dai due fidanzati non è stato appagante per la ragazza che ha perso la propria verginità fisica ma anche quella emotiva non avendo trovato nel partner la risposta adeguata ai propri sentimenti. Una sequenza avanti di un paio di epoche in cui Cassavetes tratta il sesso con molta apertura, da un punto di vista molto femminile e senza che la suggestione bianco/nero prenda il sopravvento. La questione razziale spunta solo in un secondo momento quando il giovane fidanzato di Lelia incontra Hugh e Ben e fa un brusco dietro front alla vista dei “fratelli neri” salvo poi tornare inutilmente sulla sua strada a mendicare le briciole del rapporto frantumato dalle paure. Non solo ci sono allusioni sessuali tra giovani non sposati e di etnie diverse. Cassavetes, anzi, vuole affermare il proprio postulato che il sentimento è libero da convenzioni sociali. Lelia non accetta le avance di un nuovo ragazzo di colore perché non gli piace e non c’è legge sociale che debba farglielo piacere per forza. Finchè balla con lui pensa ancora al ragazzo di cui era innamorata.
Nello sviluppare le storie personali dei tre ragazzi Cassavetes documenta la vita newyorkese delle giovani generazioni che se la spassano tra i locali della grande mela, si prendono a cazzotti ed eludono il tempo tra whiskey, birra e sigarette in attesa che succeda qualcosa. Ben fa parte di questa categoria di giovani indecisi che si infiamma di vita in maniera intermittente come le luci dei neon che si accendono e si spengono nella notte brava al ritmo del jazz. Inseguendo Lelia, Cassavetes ci mostra, invece, la New York intellettuale, dei cenacoli, del MOMA, delle più assurde conversazioni sull’umanità e sull’arte. Lo spaccato della capitale culturale del paese è straordinario nella sua contrapposizione tra pugni e intelletto.
Ombre è un film straordinario che ha precorso i tempi di almeno un ventina d’anni lanciando John Cassavetes nell’olimpo del cinema tout court e dopo aver visto questa pellicola niente mi sembrerà più come prima. Credo che ripeterò spesso "Cassavetes lo aveva già fatto".
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