Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Per giudicare “buono” un film mi sono sempre avvalsa di due caratteristiche ben definite:
1) deve essere in grado di suscitare e/o emozioni e sensazioni;
2) a distanza di tempo deve avere la capacità di rimanere impresso nella memoria, quantomeno per alcune scene e/o per il senso che racchiude in se.
L’ultima opera di Matteo Garrone, come tra l’altro le sue precedenti, possiede entrambe le caratteristiche; oltre alla sensazione disturbante che accompagna lo spettatore nella parte finale del film fino all’uscita dalla sala e oltre.
Avendo avuto del tempo per riflettere sul “disturbo” di cui sopra, mi sono resa conto che lo stesso non è causato però soltanto dalle violente scene finali ma piuttosto dalla trasformazione, necessaria quanto volontaria di Marcello, essere puro (o quasi), unico elemento buono del film, in rude individuo che annulla ogni forma di pietà che contiene la sua anima ed è capace di riempire gli spazi vuoti con risentimento e cattiveria.
Garrone ha più volte ripetuto che la sua intenzione era quella di concentrarsi non sul fatto di cronaca e sulla sua brutalità, quanto proprio sulla trasformazione umana, sull’istinto di sopravvivenza che sembra essere proprio delle “bestie”. Ci riesce grazie non solo alla suo occhio crudo e vero come nessun altro mai, capace di mostrarti ogni aspetto della realtà, senza il timore di sembrare sfacciato, ma anche grazie alla capacità di Marcello Fonte e del comprimario Edoardo Pesce di plasmarsi nei personaggi.
Se l’interpretazione di Pesce, nei panni del pazzo spietato Simoncino, è degna di essere citata, per quanto rasenti la perfezione espressiva. Quella di Fonte è qualcosa di quasi indescrivibile. A partire dallo sguardo, spento e lontano di un uomo che sopravvive grazie all’amore per la figlia e all’affetto dei cani che lo circondano (ha un negozio di toelettatura), passando per la voce stridula, quasi caricaturale, per finire con il fisico minuto che sembra consumato dal tempo.
L’ambientazione anonima di una periferia di città, che potrebbe essere ovunque, rende il tutto ancora più intimo. Il merito è pienamente della fotografia scura di Nicolaj Brüel che riesce quasi a trasferire sulla pellicola la malinconia dei personaggi, come nemmeno Marco Onorato in Gomorra e Reality c’era riuscito, pur andandoci molto vicino.
Matteo Garrone riesce a dare ancora una volta la convinzione di essere un regista per tutti. I suoi film sono capaci di ricreare l’animo umano. Le sue immagini ti entrano dentro e ti scombinano. Ti modificano e sai che dopo non sei più lo stesso.
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