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Dogman

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Dogman

di MarioC
8 stelle

Di uomini e di altre bestie. Garrone approccia la filosofia dell’homo homini lupus, la proietta nell’empireo della cronaca, ma la cronaca scarnifica, atomizza, isola dalle facili suggestioni e dalle consuete etichettature da talk show (il Canaro della Magliana, nom de plume, che è già storia, di un piccolissimo criminale trasformatosi in icona del male assoluto). Perché, come di consueto, al regista non interessa la replica e la narrazione dei fatti nel loro dipanarsi logico-temporale: Garrone vuole e deve condurre un discorso che si faccia parabola nascosta sulla inconsistenza di senso di molte vite ai margini, il suo occhio si posa sui segni ed i sintomi, prodromi che si faranno azione, sui rapporti interpersonali e sulla influenza che su questi esercitano l’ambiente, i fattori esogeni, una certa tipologia di cultura del nulla e della piccola prevaricazione, l’assenza di amore (parola che Marcello usa soltanto con la figlioletta, unico raggio di vita, e con gli animali, conscio della loro sostanziale sordità o remissività). Pertanto la Magliana non esiste, è un non luogo, un fondale universale e anodino. Siamo anzi, benché non la si citi mai, a Castel Volturno, set di elezione garroniano (già spettatore di quell’altro girotondo di vite perdute che era L’imbalsamatore),  su un mare sporco di speranze sordomute, agglomerato i cui abitanti parlano uno strano gramelot di lingue, dal napoletano al romano, al romano-calabrese,  in cui ogni essere umano pare condannato ad un isolamento pressoché voluto, con cui scendere a patti, da farsi bastare, da solleticare con la piccola criminalità, le angherie, i tradimenti, i rapporti di forza che, all’improvviso, si ribaltano (altro topos immarcescibile della poetica del regista). E non esistono nemmeno il canaro ed il suo aguzzino. Ci sono un tolettatore di cani, piccolo spacciatore e ladruncolo di occasione, minuscolo uomo benvoluto per l’indole accomodante, ed un ragazzone che lo vessa con minacciosa bonarietà. E poi un microcosmo di esercenti dalle aspettative mediocri, un mondo che si rintana nel proprio autismo, che non viaggerà mai nemmeno con la fantasia, che attende il sole o un’onda lunga di tsunami che porti emozioni che non verranno, se non nel sangue, nella violenza che ristabilisca le cose secondo il deterministico andare.

 

Marcello Fonte

Dogman (2018): Marcello Fonte

 

In Dogman Garrone gioca di sottrazione ed asciuttezza. Raffredda la materia potenzialmente esplosiva, le apparecchia una sceneggiatura di basico rigore, arieggia silenzi e dipinge sguardi che cercano inutilmente l’espressività. Non cede al ricatto delle scene madri (lo stesso omicidio finale è ben lungi dalla mattanza che la cronaca ha tramandato ai posteri), preferisce mostrare la crudeltà nel suo senso più minuto, quale portato di una intransigente incapacità di empatia. Realizza un’opera che aspira alla metafora e non alla cronaca, ed alla metafora perviene con forza. Dove si dimostra come il seme della violenza alligni in ogni cuore, in ogni animo, in ogni fascio di muscoli; dove si raffigura la volontà di potenza dei poveri di spirito, che fa strame di regole e fratellanza; dove l’innocenza è riposta negli occhi pieni di speranza di una bambina ed in quelli liquidi e pastosi dei cani; dove la metamorfosi di un uomo, il rovesciamento dei rapporti di potere, vengono assunti quale eventualità dall’alta ricorrenza statistica; dove quelli che sembrano sorrisi buoni dello scemo del paese si fanno consapevoli strumenti di ribellione; dove, infine e ancora, un uomo, ogni uomo, può trasformarsi in cane (lupus) per il suo simile (come il pitbull della scena iniziale: ringhiante e minaccioso, tenuto a bada. Finché la catena non si spezzi).  In ciò il film è meravigliosamente servito dai due protagonisti, maschere di dolore, marionette di un machiavellico senso dell’onore. L’altalena delle vittorie e delle sconfitte, la violenza che chiama su di sé altra violenza, livida come il cielo, battente come la pioggia che cade copiosa ed offusca, impregna dei suoi malefici effluvi. Fino al finale redde rationem, il Davide che diventa Golia, ovvero lo finisce. La riacquisizione della perduta dignità che passa attraverso il coup de theatre, la soppressione, il farsi appunto cane, non prima di aver costretto (letteralmente) l’antagonista a farsi egli stesso cane, costringendolo in una gabbia, ascoltando i suoi inutili latrati di bestia in cattività. Marcello ritiene di aver ripristinato un ordine delle cose, di essersi fatto vindice di un’intera comunità, di aver bonificato la palude della violenza quotidiana attraverso un atto di violenza unico, e definitivo. Non è esattamente così.

 

La scena finale spariglia le carte, riconduce la cronaca e la storia al prevalente territorio metaforico, salda la nuda realtà dei fatti all’intendimento autoriale. Il Davide che porta sulle gracili spalle il cadavere del suo Golia, e che vuole essere riconosciuto quale uomo giusto, si trova di fronte un deserto di umanità. Non c’è nessuno ad acclamarlo, a sollevarlo all’empireo degli eroi, le voci si sono smorzate: restano pozzanghere, sporcizia, probabilmente gabbiani a rovistare nel torbido. Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di indifferenza, potremmo dire. Una scena bellissima ed inquietante che apparenta Dogman a quell’altro capolavoro (probabilmente ancor più cesellato e profondo) che era Reality (va peraltro segnalato l’ottimo cameo di Aniello Arena, lì protagonista qui agente di polizia a dettare le regole della giustizia, lui che nella vita sconta un ergastolo, magnifico corto circuito di senso, anche emozionante). Luciano da solo, nascosto nella casa del Grande Fratello, a realizzare, finalmente, di essere nullità, a rivendicare ma anche disprezzare il suo sogno di gloria. Disperatamente silenzioso a guardare l’acquario degli altri che si muovono e parlano senza dire assolutamente nulla. Marcello ed i suoi occhi che implorano la gloria della vittoria. E vagano, soli, tristemente soddisfatti, a capire che non ci sarà altro destino che quello di apparecchiare creste di cani vezzosi.  

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