Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Una cupa favola western che sfiora la perfezione
Era il 1988 quando il caso del canaro della Magliana che aveva torturato e ucciso un pugile sconvolse l'Italia (da allora molto è cambiato: crimini del genere ormai fanno a malapena notizia) e la storia col tempo è diventata leggenda, quasi un mito che si racconta, indugiando sulle parti più sadiche e truculente (molte delle quali false, come in ogni leggenda metropolitana che si rispetti), per inquietare gli ascoltatori. Una favola nera. Ed è proprio da questa idea che prende spunto la narrazione del nuovo film di Matteo Garrone, Dogman: una distorta fiaba western in cui c'è un villaggio, un cattivo e un eroe vendicatore. Il villaggio è grigio, polveroso e di una desolazione disarmante (la ridente Castel Volturno, fateci un pensierino per quest'estate): un luogo-non-luogo di frontiera, dove vige la legge del più forte tipica del selvaggio West e dove l'irascibile e prepotente Simoncino (un irriconoscibile Edoardo Pesce, ottimo nella sua interpretazione animalesca), sempre a caccia di coca a cavallo del suo destriero (una moto rossa), la fa da padrone.
Infine c'è l'eroe, il mansueto e remissivo Marcello (l'incredibile Marcello Fonte, giustamente premiato a Cannes, che sembra nato per questo ruolo), toelettatore di cani con una carriera parallela di piccolo spacciatore di cocaina, padre amorevole e membro attivo della comunità. Marcello ascolta ogni giorno i suoi amici, dal proprietario del saloon (la sala giochi) a quello del banco dei pegni (il compro oro), lamentarsi del violento Simoncino, ma tace. Tace perchè tra i due c'è un legame invisibile, nascosto, un'amicizia.
Ma è un'amicizia deforme, nata sulla cocaina, che vede Marcello costantemente maltrattato e sfruttato dal pugile, ma in cui il canaro ripone molte aspettative: forse afflitto da una sorta di sindrome di Stoccolma, Marcello sopporta le vessazioni nella speranza un giorno di essere considerato un pari dal suo carnefice.
Quando però, anche dopo aver perso tutto in nome di quest'amicizia, gli sarà chiaro che questo giorno non arriverà mai, Marcello attuerà la sua vendetta.
Ispirata solo a grandi linee alla vera storia del canaro, la sceneggiatura di Dogman ha atteso 20 anni per raggiungere il grande schermo e nel frattempo è stata più volte rivista e limata. Un lavoro lungo che però l'ha portata quasi alla perfezione: è asciutta, mai banale, non c'è nulla di superfluo, niente è lì per caso. Tutto questo lavoro è poi coronato da un regista, Matteo Garrone, e dalla sua personale, ascetica visione del cinema, che sa dare una drammaticità unica a ogni inquadratura (complice anche l'ottima fotografia di Nicolaj Brüel, che dà un tono surreale a tutta la pellicola), senza mai sovrastare l'immagine stessa. Il regista muove i suoi attori con maestria, concentrandosi molto sulla loro fisicità: Marcello minuto e goffo, a tratti sembra Charlot, mentre Simoncino, alto, muscoloso e feroce, è un fascio di nervi mosso dal puro istinto, proprio come i cani con cui Marcello ha a che fare ogni giorno (e sarà proprio trattandolo come uno dei suoi cani che riuscirà a attirarlo nella trappola finale).
Ma anche il resto del cast, da Francesco Acquaroli a Adamo Dionisi (già visti in Suburra), passando per lo “sceriffo” Aniello Arena, già protagonista di Reality dello stesso Garrone, è una “collezione” di facce davvero ben scelte.
A chiudere l'incastro col meccanismo western sarà poi la scena finale, a vendetta ultimata, in cui l'eroe solitario trascina la sua vittima nella sabbia fino al centro della piazza. Ad aspettare l'eroe vittorioso dovrebbe esserci tutto il villaggio in festa, ma qui non c'è nessuno: la vendetta è compiuta, il nemico sconfitto, ma l'eroe non riceverà alcun onore. Ed è con un lunghissimo e intenso primo piano del protagonista spaesato, che Garrone ci ricorda che questa è una favola, sì, ma una favola stonata: qui il lieto fine non c'è, per nessuno.
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