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Dogman

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Dogman

di Malpaso
8 stelle

Garrone rimane coerente al proprio sperimentalismo narrativo, dal raffinato manierismo postrinascimentale alla selvaggia periferia contemporanea, e per raccontare l’Italia degli ultimi, degli ignoranti più per sorte che per colpa, riesuma e realizza un western.

L’estetica della violenza e come questa infici sulla realtà sociale nella quale agisce, quindi sull’individuo: ecco la costante ricerca sottesa al cinema di Matteo Garrone. Che si tratti dell’ambiente cortigiano seicentesco de Il racconto dei racconti o della periferica Magliana di Dogman, l’autore romano esplora i rapporti di forza e sottomissione tra diversi tipi umani, ne racconta i sentimenti e le speranze, destinate a rimanere tali nell’aridità del degradato paesaggio urbano.

 

L’estetica, dicevo. Se il già citato Racconto dei racconti rappresenta un unicum nella filmografia del regista in virtù dell’impercettibilità della sua mano sulla macchina da presa, della statica ricercatezza dell’immagine e del simbolismo delle composizioni, con quest’ultima opera si ritorna invece alla regia anarchica di Gomorra, con tanta camera a mano a seguire gli attori, un ritorno alla contemporaneità e il solito sguardo al primo neorealismo nella scelta dell’attore protagonista e nella totale adesione alla cadenza linguistica dell’ambientazione. Apparentemente un passo indietro, un negare la propria ultima evoluzione stilistica; in realtà, Garrone rimane coerente al proprio sperimentalismo narrativo, dal raffinato manierismo postrinascimentale alla selvaggia periferia contemporanea, e per raccontare l’Italia degli ultimi, degli ignoranti più per sorte che per colpa, riesuma e realizza un western. Forse in risposta ai numerosi tentativi internazionali di riportare in auge il genere, Garrone ci riesce senza scadere nella ridicolaggine dell’estemporaneità o senza mettere le mani avanti con l’autoironia, bensì facendo tesoro delle metafore visive da lui create per il capolavoro di Giambattista Basile e raccontando un mondo senza leggi, ma il cui orizzonte resta confinato dalle decadenti case popolari. La natura selvaggia si limita a cani ammaestrati, e qui spero di non essere l’unico ad averci colto una sottile ironia, mentre l’eroe a cavallo, l’outsider, è un energumeno cocainomane in sella ad una moto.

 

Ma il protagonista non è lo straniero che arriva da fuori, bensì “lo zoppo”, il sottomesso, che per sopravvivere deve allearsi, stare in società. Anche perché il limite della realtà è circostanziato dagli alti edifici, non ci sono terre lontane o ricchezze da sognare, non siamo nel far west di fine ottocento, padre e figlia non sanno dove si trovino le Maldive. Così l’atto violento si confonde con l’atto etico, diventa l’unico costituente sia dei personaggi che dei luoghi in cui essi si muovono, quindi Dogman si rivela in tutta la sua tragicità: l’uomo di fronte al continuo bivio della scelta, ma incapace di prenderne una. Questo è Marcello, nome del protagonista e dell’attore che lo interpreta, padre di famiglia in balia degli eventi, desideroso non di vendetta, bensì della riammissione sociale: ce lo fa capire Garrone in un finale in cui si concede una deviazione aulica, figlia delle sue ultime sperimentazioni di derivazione letteraria; Marcello ricorre alla violenza perché non vede oltre e, anche se lo volesse, non potrebbe. Così il sistema è chiuso in se stesso, ma che sia Scampia o Magliana, Garrone continua nel suo tentativo di perforarlo, senza la presunzione del film di denuncia, ma con interesse umanista verso gli eroi perdenti delle sue tragedie contemporanee.

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