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Dogman

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Dogman

di barabbovich
9 stelle

Parte da un macabro fatto di cronaca accaduto a Roma alla fine degli anni Ottanta questo Dogman di Matteo Garrone, ennesima prova di un talento registico straordinario. La vicenda alla quale si ispira il film è quella che coinvolse Pietro De Negri, il cosiddetto "canaro della Magliana", l'uomo che - vessato per anni dall'amico Giancarlo Ricci, pugile dilettante - lo fece a pezzi nel suo negozio di toelettatura per cani. Nella finzione, lo scenario si sposta dalla capitale al Villaggio Coppola, zona Castel Volturno, esempio icastico di abusivismo edilizio e degrado ambientale. Qui Marcello (Fonte), padre separato ma amorevole di una bambina che adora, vive un'esistenza relativamente tranquilla, ama moltissimo i cani, ha amicizie consolidate - tra pranzi di gruppo e partite a calcetto - e arrotonda con qualche traffico illecito di cocaina, con la quale, all'occorrenza, si incipria il naso. La vera iattura della sua vita è Simoncino (Pesce), essere rude e violentissimo, inviso all'intera comunità locale, ma che tuttavia tiene Marcello sotto una pressione continua, epitomizzata da un contrasto corporeo e muscolare evidentissimo. A causa di Simone, Marcello finirà anche in galera, per poi meditare un'atroce vendetta.
Garrone ci regala l'ennesimo gioiello con questo film meditato a lungo (una dozzina d'anni, racconta il regista), un'opera nerissima, cupa, che ci riporta a quel cinema dei corpi (Primo amore, L'imbalsamatore, Gomorra, ma anche Il racconto dei racconti) che è la cifra stilistica primaria del cineasta romano: un corpo - quello di Marcello Fonte, un passato remoto da baraccato e un passato prossimo da custode di uno stabile, faccia pasoliniana e corporatura minuta - capace di esprimere quel desiderio di stare al mondo con mitezza, sbarcando il lunario come può, ma sui binari di una costante bontà d'animo, che tocca il suo apice espressivo nella scena in cui si adopera per salvare un chihuahua finito in freezer. Se Fonte - insignito a Cannes della Palma d'oro come miglior interprete - "è" il film tout court, il suo comprimario Edoardo Pesce (già straordinario in Tommaso, Il ministro e Fortunata) si ritaglia uno spazio potente, devastante, che non risparmia allo spettatore momenti crudissimi anche quando la violenza rimane fuori campo. Entrambi attori straordinari a servizio di un'opera che si inscrive in quel realismo delle periferie che fin dagli esordi (Terra di mezzo, Ospiti, L'imbalsamatore, ambientato anch'esso a Castel Volturno) è un topos frequentissimo del cinema di Garrone, tra i pochi registi italiani capaci di respiro internazionale, con le sue storie che - pur guardando a una realtà locale - sanno essere universali.

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