Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film
Un regista che viene dalla sperimentazioni di Dogma racconta, grazie ad un cast internazionale, il noto dramma del sottomarino russo nello stile più convenzionale, classico e spettacolare possibile, ma tuttavia riesce a coinvolgere ed emozionare il pubblico.
XIII FESTA DEL CINEMA DI ROMA (2018)
Una produzione internazionale per raccontare la tragedia del sommergibile nucleare russo Kursk, che nell’estate del 2000 si inabissò per sempre nelle acque gelide del Mare di Barents, diventando una tomba per i 118 uomini del suo equipaggio, di cui quasi cento morti sul colpo per le esplosioni, altri ventitré sopravvissuti per alcuni giorni al centro di un inutile e fallito tentativo di salvataggio, per cui la Russia rifiutò, per orgoglio nazionale o per timore di svelare agli avversari segreti militari, ogni forma di cooperazione internazionale.
Passatoil disagio iniziale di sentire la comunità di una città portuale sul Mare di Barents parlare in lingua inglese (la produzione, mirata al pubblico internazionale, scrittura attori come il belga Matthias Schoenaerts , la francese Léa Seydoux, gli svedesi Max Von Sydow e Michael Nyqvist nei ruoli principali, tra cui non figura nemmeno un attore russo in una parte significativa), ci si lascia avvincere da una pellicola certamente tradizionale, sul solco dei disaster movie hollywoodiani, ma scorrevole ed avvincente.
Il regista Thomas Vintenberg, tra i creatori degli sperimentalismi di Dogma, si affida qui alla sicurezza dello stile più classico e lineare dei film per il grande pubblico per rappresentare il noto dramma, basandosi sul libro A Time to Die scritto da Robert Moore.Tre sono i piani narrativi su cui si svolge la vicenda: quello più intimo dei marinai intrappolati tra caparbia speranza e consapevolezza della morte incombente; quello dei familiari in trepidante attesa nella base della flotta che sbattono contro il muro di gomma alzato dalle autorità quando le obsolete attrezzature utilizzate per il salvataggio falliscono l'ancoraggio allo scafo sommerso; quello del quartier generale NATO, con l’ammiraglio inglese interpretato da Colin Firth che tenta di portare il suo aiuto, che sarebbe forse stato risolutivo.
Tornano i gradi classici del genere: il cameratismo maschile tra i marinai, il carisma da leader del capitano che tiene unito il gruppo e ne alza il morale, il dignitoso dolore della moglie a terra, il dramma del figlio bambino, l’ottusa superbia delle autorità, indifferenti di fronte alla morte degli anonimi cittadini, sacrificati per l’interesse o l’orgoglio nazionali. Tutto già visto per raccontare altre vicende vere o fittizie, certo, nulla di troppo originale ed innovativo. Ma tuttavia ben realizzato e coinvolgente, in una confezione curata che riesce a coinvolgere ed in qualche punto anche ad emozionare, come la scena nella quale il capitano, padre di un bambino e di un altro in arrivo, chiede ad uno dei marinai, orfano fin da piccolo, che ricordi un figlio come il suo potrà serbare di lui.
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