Regia di Artur Aristakisjan vedi scheda film
Regista appartato e borderline, Artur Aristakisjan è autore di soli due film, Ladoni – Le palme delle mani e L’ultimo posto sulla terra, rispettiamente del 1993 e del 2001. Una scarsità produttiva riscattata, però, dalla qualità delle singole opere. Si tratta, infatti, di due veri e propri capi d’opera del cinema russo contemporaneo, opere che sembrano provenire da un tempo lontano, meravigliosamente anacronistiche nel loro spoglio bianco e nero. Lavori uniti dall’interesse per i dimenticati della società, per gli esclusi - i mendicanti, gli storpi, i diversi. Un cinema – ed è importante ricordarlo - solo all’apparenza mosso da intenti puramente sociali. Perché l’opera di Aristakisjan si muove attraverso lidi che, dal quotidiano, vogliono giungere al sacro. Un mezzo e un percorso necessari per ridare dignità e umanità a quegli individui che l’occhio (della macchina da presa, e non solo) non vorrebbe vedere.
Ladoni è il film che Aristakisjan realizza come diploma alla prestigiosa scuola di cinema di Mosca. Quattro anni di lavorazione in cui il regista moldavo (di origini armene) resta a contatto con i mendicanti della periferia di Kishinev. Questa esperienza “immersiva” si traduce in un film nel quale saltano i princìpi stessi del documentario, ovvero, dove non v’è alcuna distanza con l’oggetto mostrato. Lo sguardo si fa, piuttosto, partecipe. Come nel successivo L’ultimo posto sulla terra, Aristakisjan descrive dal di dentro un mondo di dimenticati, senza sfruttare retorici registri patetici. Il film, infatti, non è propriamente un documentario, né un film di finzione. È piuttosto una testimonianza. Una lettera tra ciechi, come afferma la voce fuori campo che commenta le immagini senza sonoro del film. Un lungo monologo in cui il narratore conversa con quel figlio che ancora deve nascere, e al quale descrive un mondo – quello dei mendicanti – più vero e puro del Sistema, perché lontano da esso, e dai suoi falsi princìpi. Il cristianesimo (non ortodosso) di Aristakisjan diventa così una decisa risposta al materialismo post-sovietico.
Ladoni comincia con le immagini di un film muto ambientato nel 28 d.c. a Roma durante per persecuzioni nei confronti dei cristiani – assistiamo infatti ad una scena ambientata nel Colosseo in cui i corpi dei cadaveri vengono divorati dai leoni. A questo brutale incipit seguiranno due ore in cui la macchina da presa pedinerà i movimenti dei mendicanti nella città di Kishinev. Aristakisjan mostra senza patetismo i corpi dei suoi tristi protagonisti affetti da handicap e menomazioni fisiche. Perché esso non dev’essere più esclusivamente “corpo”, ma farsi spirito per ritrovare la sua completezza, la sua umanità, la sua dignità. Riprendendo Pasolini – il regista più amanto da Aristakisjan -, il narratore afferma, infatti, che tutto è sacro, che il dentro deve farsi esterno, che lo spirito deve farsi corpo. Opporsi a quel materialismo – e l’estremizzazione illuminista teorizzata da Adorno -, che ha portato alle aberrazioni storiche del Novecento (le dittature, il nazismo, il comunismo), dove i corpi (come nelle immagini del film muto) diventano carne da macello, rimossi da ghettizzare (le baracche nelle periferie di Kishinev). Come in Accattone, Aristakisjan affianca alla povertà dalle immagini la musica classica (in questo caso, di Giuseppe Verdi), cercando con ostinazione quel punto di convergenza tra sacro e profano, tra alto e basso, che può rivelarsi salvezza di un mondo che non vuole più vedere.
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