Regia di Peyton Reed vedi scheda film
In fondo la figura di Ant-Man è abbastanza periferica rispetto alla narrazione del MCU che ha il suo fulcro negli Avengers, formazione di cui è membro ad intermittenza, e non solo per la dislocazione californiana (San Francisco) che lo allontana dalla capitale Marvel (New York), ma anche per la declinazione in commedia di avventure super-eroistiche, eccezione alla regola di un’ironia solo diffusa negli altri film, almeno sino alla deformazione macchiettistica di Thor e Hulk nell’apocalisse trasformata in burla di Ragnarok. Eppure è proprio nel ribadito palinsesto definito degli avvenimenti degli ultimi Avengers che si dipana la vicenda raccontata dal secondo capitolo delle vicissitudini dell’uomo-formica, la quale, infatti, si origina e termina in totale sintonia con la saga seriale. Troviamo infatti Scott Lang costretto in casa, dopo la prigione, per aver partecipato alla Guerra Civile capitanata da Steve Rogers e aver trasgredito agli accordi di Sokovia (Age of Ultron), di fatto trasformando anche la famiglia Pym in complice di un eroe disobbediente e costringendola alla clandestinità. Ed è alla conclusione del primo opus di Infinity War che rimanda il finale del film, nel consueto trafiletto dopo i titoli di coda, con l’esfoliazione di alcuni protagonisti e l’incertezza sul prosieguo delle scorribande cinematografiche di molti altri personaggi Marvel. Nella pellicola, poi, non mancano precisi riferimenti al crollo dello Shield successivo alle vicende di Winter Soldier, con la perdita di un’organizzazione capace di coordinare e controllare eventi e personaggi fuori dal comune.
All’interno di questa cornice condizionante che mantiene saldi i nessi al filone principale, i film di Reed, coerentemente anche con la sua produzione precedente, si inseriscono nei canoni della commedia sentimentale eccentrica, infiltrata da elementi dissonanti che, paradossalmente, ne alimentano e potenziano il nucleo sentimentale. Se il primo film era una sorta di heist-movie che raccontava l’innamoramento progressivo dei due eroi, questo si profila come una comedy of remarriage tra Scott Lang e Hope van Dyne, la cui tensione erotica latente è annullata e alimentata dalla stizza per la decisione di Scott di affiancare Capitan America e imporre ai Pym la fuga dalle autorità con il conseguente il sequestro dei beni e delle officine. È proprio questa necessità di continuo nascondimento che muove il film, con il laboratorio che, grazie al potere restringente delle “particelle Pym”, diventa tascabile e trasforma in trolley un intero palazzo. L’inseguimento da parte del governo (FBI, polizia) e di loschi trafficanti di tecnologie (traduzione grottesca dell’Avvoltoio di Spiderman) impone una dinamica di scappa e fuggi, intramezzata con scontri fisici con costanti cambi di dimensione e di prospettiva (a vantaggio della variante stereoscopica della pellicola): Ant-Man & The Wasp diventa così un funambolico chase-movie con tanto di classici inseguimenti stradali tra i saliscendi di San Francisco. A questa intrinseca e inarrestabile dinamicità si aggiungono i numerosi cambi di ritmo imposti dalla permanenza obbligata ai domiciliari di Lang e le varie visite di controllo del Bureau, con la staticità e ripetitività delle azioni, anche nella loro simulazione mentre il presunto criminale è in altre avventure affaccendato. Ovviamente la frequentazione sul campo porta ad un riavvicinamento dei due eroi in miniatura, con tanto di vicendevole salvataggio e riconciliazione finale.
Ma l’elemento sentimentale si avvale di un raddoppio di scala nel tentativo di ricongiungimento tra Hank Pym e la moglie, Janet Van Dyne, persa tra le sfere quantistiche subatomiche, costituendo anche la base narrativa principale all’azione nel tentativo di ricostituzione di un nucleo familiare traumaticamente spezzato. Così la comédie du remariage si declina in una dimensione più melò tra i due eroi d’antan, i quali potrebbero così tornare insieme e sulla breccia E, in effetti, la presenza di supereroi senior, sebbene non ammicchi direttamente alla distopia (politica e fumettistica) degli Watchmen, rimanda ad un tempo di eroi passati che soltanto Captain America ha esplorato (e Black Panther soltanto sfiorato, con la tradizione ancestrale del regnante superdotato del Wakanda) caratterizzando il film come ulteriore stravaganza rispetto alla norma del MCU.
L’eccentricità di Ant-Man sta anche in Scott Lang, non soltanto per la fallimentare ambizione criminale dell’esordio ma, soprattutto, in quanto trasposizione macroscopica (anche letteralmente) del protagonista hitchcockiano, dell’uomo qualunque costretto ad agire e a reagire a situazioni eccezionali, con l’ausilio, qui, di tutine dotate di poteri. Ma poiché si tratta di un sequel in un contesto seriale, questo assunto, definito ed esplorato nella prima pellicola, si approfondisce non solo col confino domestico (e la celebrazione della quotidianità) ma anche con la sottolineatura dell’inadeguatezza costante di Scott alle esigenze della società (e di Hope) sino a farne una versione parodica di quell’uomo comune, quasi un fallito compulsivo che trova, nel film e nella vita, l’occasione di una rinascita e di un riscatto (come celebra l’happy end finale). È soltanto nel rapporto con la sveglia figlioletta che il personaggio rimane di inattaccabile tenerezza e Lang permane come fulcro della eccezionale ‘medietà’ di un uomo gentile e sensibile (come tutti i personaggi della carriera di Rudd), supereroe suo malgrado e sempre motivato da buone intenzioni a dispetto delle devastanti conseguenze di ogni sua azione (soprattutto se in scala Golia).
In questo senso Ant-Man & The Wasp è un film sugli errori e sulla loro correzione, un racconto di espiazione in cui il passato deve essere recuperato e rettificato per tornare sui binari della serenità e della normalità. Proprio in tale ambito si inseriscono sia le avventure romantiche dei protagonisti, sia le azioni degli antagonisti principali (Ghost ma anche Foster: ex Golia Nero e Giant Man dei fumetti), motivati da sfasature emotive e fisiche che devono trovare soluzione e concretezza.
Nei confronti del Marvel Cinematic Universe Ant-Man, per la valenza ironica e la presenza di bambini, è la versione per famiglie dei cinecomics, la rilettura più sfacciatamente Disney della saga, senza spargimenti di sangue e quasi senza ammazzatine, con personaggi parodici e sopra le righe (soprattutto i comprimari), un’ironia generalizzata e ammiccante e con un finale conciliatorio che, consapevolmente, ben si abbina al racconto di un genitore premuroso che smussa gli elementi più temibili delle proprie disavventure trasformandole in gioco (l’inizio), o alle action figure con cui i ragazzi possono rivivere le vicissitudini dei propri beniamini (i titoli di coda). Ma questa spudorata vocazione all’innocenza viene però smentita, sebbene con il consueto umorismo, dalla sequenza post-finale, con la disintegrazione imposta da Thanos dei tanti amati eroi e la dislocazione nell’incertezza di ogni seguito, come sottolinea la classica scritta conclusiva sul ritorno dei personaggi, seguita poi da un impertinente punto interrogativo.
Peyton Reed si riappropria di una mutazione più leggera dell’universo supereroistico, che va ad affiancare la goliardia umoristica e nostalgica dei Guardiani della Galassia (la quale, infine, si abbina al triste destino buffonesco del Dio del Tuono e del Golia Verde, troppo bigger than life per i canoni di un seppur generico realismo). Con una sceneggiatura compatta e uno sviluppo coerente, il regista confeziona un’elegante rom-com agitata dall’azione e shakerata dai superpoteri, aiutato anche dalla fotografia efficace (e a volte sorprendentemente incisiva) di Dante Spinotti, da interpreti in parte e senza stonature, con una regia garbata e trasparente, tendenzialmente hawksiana con riprese ad altezza d’uomo (ma variabile a seconda delle dimensioni) e prevalenza di primi piani nei dialoghi (con campo e controcampo classici), mentre le inquadrature d’insieme vengono riservate per le scene di combattimento e più spettacolari, riprese a distanza come Blake Edwards girava le sequenza più slapstick, in cui il contesto deve essere definito per lasciar spazio al divertimento sovversivo di una figura anomala.
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