Regia di Joel Schumacher vedi scheda film
Per molti, un capolavoro, per altri un bel film, per tantissimi altri un film inguardabile e retorico, falso a più non posso. Qual è la verità? Il Falò (non) la sa, ah ah.
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo, giungendo ai nineties, cioè a metà anni novanta, recensendo Il momento di uccidere (A Time to Kill), opus firmato dal compianto Joel Schumacher (Ragazzi perduti, 8MM).
Film del ’96 della corposa, forse prolissa ed eccessiva, durata di due ore e ventisei minuti precisi, Il momento di uccidere fu sceneggiato dal premio Oscar Akiva Goldsman (A Beautiful Mind), già in precedenza collaboratore e screenwriter per Schumacher. Che, sommariamente e con non poche licenze, adattò per il grande schermo un famoso e apprezzato libro del maestro per antonomasia dei legal thriller, ovvero John Grisham. Che, con la sua omonima novella, peraltro, esordì in campo letterario.
Schumacher, dopo Il cliente, anche quest’ultimo tratto da un libro del celeberrimo e appena succitato esperto di aule di tribunale in ambito soprattutto “editoriale”, già numerosissime volte trasposto per svariate e altrettanto celebri riduzioni cinematografiche (L’uomo della pioggia, Il socio, La giuria), dunque si cimentò nuovamente con una contorta e leguleia vicenda processuale ad alto tasso adrenalinico, ripiena di spiazzanti ed emozionanti colpi di scena inaspettati, vividamente intrisa di forte pathos e suspense in abbondanza, perfino ricolma d’estenuante retorica esagerata e di pesante didascalismo manicheo ai limiti del presentabile, così come, d’altronde e pertinentemente, enunceremo e più avanti spiegheremo, fornendovene maggiori e più certosini dettagli recensori ed esegetici delineativi, speriamo, con meticolosità inappuntabile. Detto ciò, altresì premettiamo che Il momento di uccidere, sebbene all’epoca fu perlopiù ampiamente stroncato da molta intellighenzia critica, soprattutto nostrana, non è disprezzabile come i più dissero e, pur di certo non brillando in originalità e gravemente difettando sotto molti aspetti, specialmente per quanto concerne la sua scrittura, sovente prevedibile e schematica, rivisto oggi, con più oculatezza e misuratezza, possiede parimenti molti momenti apprezzabili e decisamente degni di nota.
Trascrivendovi, sottostante, la sinossi da IMDb, in tal caso corretta e non necessitante d’ulteriori spiegazioni superflue, eccovene giustappunto la sintetizzata e riportata trama:
A Canton, un impavido giovane avvocato e il suo assistente difendono un uomo di colore accusato di aver ucciso due uomini bianchi che hanno stuprato sua figlia di dieci anni, incitando alla violenza e alla rivincita del Ku Klux Klan.
L’uomo nero si chiama Carl Lee Hailey e, a prescindere dall’opinabile valore qualitativo di tal pellicola ivi disaminata, è interpretato con indubbia bravura dal solito eccellente Samuel L. Jackson che, per questa sua accalorata interpretazione assai sentita, fu giustamente candidato ai Golden Globes come miglior attore non protagonista, mentre il suo avvocato difensore, giovane, ambizioso e coriaceo, volitivo, spregiudicato e inarrendevole, è incarnato con altrettanta vigoria recitativa da un ottimo Matthew McConaughey. Il quale, sebbene a volte incerto, ancora un po’ acerbo, dunque qua e là imbambolato e leggermente spaesato, impacciato all’inizio, impomatato e incravattato, spesso esibente compiaciute pose da piacione, impeccabilmente fotogenico, sfodera al contempo una sorprendente grinta, in molti frangenti, appassionata e trascinante.
Non da meno, rispetto ai due citati interpreti principali, è il ricchissimo parterre attoriale perfettamente diretto e orchestrato da Schumacher, fra cui spicca, come consuetudine, un viscido Kevin Spacey, la bella Sandra Bullock nei panni della studentessa che aiuta il character di McConaughey nelle indagini, l’apparizione folgorante di Ashley Judd, Octavia Spencer, Oliver Platt (antica conoscenza di Schumacher dai tempi di Linea mortale), Charles S. Dutton, Brenda Fricker, Patrick McGoohan, Chris Cooper, e la ben assortita accoppiata padre e figlio, costituita da Donald e Kiefer Sutherland (habitué ed ex carissimo amico e attore tra i preferiti di Schumacher), stavolta schierata su fronti opposti.
Confezione, come si suol dire, di lusso e perfetta sul piano formale, con egregia fotografia di Peter Menzies Jr., musiche, un po’ pompose, di Elliot Goldenthal per un film accusato, come spesso avvenne per le pellicole schumacheriane, di giustizialismo dei più ipocritamente ambigui e malsanamente reazionari.
A ben vedere, però, trascurandone l’impianto, in effetti e come già dettovi, insopportabilmente retorico in troppi passaggi, compreso il climax finale che ovviamente non vi sveleremo se siete fra coloro che non hanno ancora mai visto questo film, Il momento di uccidere, pur ascrivendosi fra le pellicole hollywoodiane dal canovaccio abbastanza scontato, pur essendo costruito secondo il classico stilema “mainstream” dei più abusati e convenzionali (gli statunitensi definiscono film così con l’espressione formulaic), malgrado molte battute e botte e risposte telefonate, avvince ed emoziona, tenendoci col fiato sospeso dal primo all’ultimissimo minuto.
Merito d’una regia estremamente professionale e accorta che, pur non essendo trascendentale e, ripetiamo, non mostrandoci nulla di particolarmente originale e/o innovativo, con apprezzabile mestiere consolidato sa reggere il ritmo narrativo con cineastica esperienza, se non impari, perlomeno non trascurabile.
Allorché, Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, definì banalmente Il momento di uccidere un mega-polpettone amatoriale forcaiolo, superficialmente snobbando la prova di McConaughey, descrivendola in questi sbrigativi termini poco lusinghieri, ovvero un protagonista preoccupato solamente di assomigliare ora a Paul Newman ora a Marlon Brando, per cui lo liquidò e classificò come attore mediocre, Mereghetti fu precipitoso oltremodo e in maniera poco avveduta. Infatti, il tempo, tanto inesorabilmente impietoso quanto meno affrettatamente sentenzioso di Mereghetti e più equo, fortunatamente generoso e rivelatorio, come sappiamo, decretò l’oramai inappellabile verdetto finale secondo cui, il bistrattato e per troppo tempo ingiustamente sottovalutato McConaughey, dopo le sue strepitose performance superlative, specialmente in Dallas Buyers Club & True Detective, non doveva e non può mai più essere preso sotto gamba in maniera così ingrata e stoltamente disarmante.
Infine, per concludere, aggiungiamo la seguente curiosità, crediamo, molto interessante: l’attore Anthony Heald, dopo essere stato lo psichiatra Dr. Frederick Chilton ne Il silenzio degli innocenti, qui interpreta un similare ruolo pressoché uguale, cioè il direttore psichiatrico di un manicomio chiamato a testimoniare alla sbarra in merito a una presunta e forse erronea, mal diagnosticata infermità mentale...
di Stefano Falotico
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