Regia di Sharunas Bartas vedi scheda film
Una storia senza un perché, che, a prima vista, di questa condizione sembrerebbe soffrire sul piano della resa cinematografica. La giovane straniera portata da un elicottero in mezzo ad una tribù siberiana è certo una provocazione troppo dichiaratamente studiata, una sfida antropologica che si risolve in un esperimento dall’esito scontato: la donna e gli indigeni appartengono alla stessa specie, provano curiosità gli uni verso gli altri, eppure, per ovvi motivi, non si capiscono e non sono in grado di interagire. Tuttavia, in questa semplice riflessione sulla mancata universalità della natura umana, la banalità è spazzata via dal respiro dato alla dimensione della libertà e della contemplazione: un territorio invisibile che la mancanza di dialoghi rende illimitato e, in un certo senso, vergine. È questo spazio, privo di parole e concetti classificabili, il vero mondo in cui le anime, spogliate delle loro specifiche connotazioni culturali, possono camminare insieme, pensando all’unisono, sia pur ognuna per suo conto. La solitudine diventa così il momento in cui l’individuo riesce a ritagliare per sé uno scampolo di trascendenza, dove la purezza del suo essere arriva ad esprimersi senza l’onere di dover comunicare. Il titolo originale, Musu nedaug, ossia pochi di noi, restituisce il senso di una rarefazione che allarga gli orizzonti personali, svuotandoli della presenza fisica degli altri, e riempiendoli, invece, di significati interiori. La carenza d consequenzialità, di cui quest’opera appare affetta, è prodotta proprio dalla molteplicità dei punti di vista, dallo sfasamento esistente tra le prospettive dei vari personaggi, che confina ognuno di essi in un proprio sistema di riferimento logico-temporale. Con questo film, Šarunas Bartas ci dimostra che il più corretto approccio documentaristico è quello basato su una visione policentrica, che si affida ciecamente alla terrena filosofia del limite e del relativismo.
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