Regia di Fulvio Ottaviano vedi scheda film
Un film “simpatico”, anni luce lontano dai luoghi comuni della peggior commedia giovanilistica italiota (da Pieraccioni a Muccino). Al di là della fotografia in b/n e dallo stile svagato e vignettistico, elementi palesemente mutuati dall’americano “Clerks” (indie-cult che ha marchiato la generazione anni 90), quello che colpisce positivamente è il tono anti-retorico, stralunato e surreale con cui vengono affrontati temi non proprio leggeri come la disoccupazione e i problemi relazionali. Non c’è traccia di auto-commiserazione, pietismo, piagnistei, ma nemmeno di improbabili svolte consolatorie e di ottimismo forzato. Si rimane ancorati ad un reale che, per quanto trasfigurato dall’ironia e dall’inventiva, è una onnipresente zavorra legata ai piedi di una post-adolescenza che già allora si trovava a fare i conti con le contraddizioni e le miserie (morali ed economiche) della società “post-ideologica” (o presunta tale).
Si fa fatica a credere che un’opera così libera sia stata prodotta in un sistema in larga parte castrante come quello cinematografico italiano dell’ultimo trentennio. Eppure è un film italianissimo, nella misura in cui esprime quell’arte dell’arrangiarsi (=genio) che contraddistingue, nel bene e nel male, la “italian way of life”. Vale come spaccato sociologico di quella generazione, senza per questo risultare eccessivamente dimostrativo, anche se effettivamente alcuni sketch hanno la consistenza di una barzelletta. E’ inoltre una sorta di risposta a distanza al primo Moretti, quello “autarchico”, senza però tutte le sue fisime (talora irritanti, talora divertenti) e soprattutto senza il suo ingombrante apparato ideologico. Quello di Ottaviano è un morettismo davvero anarchico e libertario. E’ ammirevole inoltre la capacità del regista di gestire anche le sequenze più lunghe, articolate ed importanti sul piano emotivo e tematico: la lunga notte prima del colloquio di Sergio, con l’addio al nubilato della ex Rita e la grottesca corte del casanova Enzo, è un momento di grande cinema, una sinfonia di stati d’animo condotta con grazia e leggerezza davvero rare.
Ma la cosa più pregevole di questo film è che, nonostante la cifra sarcastica e “giovane”, non viene mai a mancare l’empatia verso i personaggi e le loro pene: non c’è quell’odioso anti-umanesimo neo-hipster che oggi va per la maggiore, in piena osservanza al dogma della bizzarria fine a se stessa e del cinismo a tutti i costi (anche quello di sacrificare la pregnanza emotiva dei contenuti). A questo encomiabile aspetto, aggiungiamo pure un cast di interpreti del tutto in palla (con un Mastandrea forse un pizzico sopra le righe), figure quasi tutte azzeccate, uno script esile ma messo bene a fuoco, alcune felici soluzioni figurative, un soundtrack a base di rap italico d’epoca, un erotismo esibito senza falsi pudori e senza eccessi gratuiti, un finale onirico che sfocia in una gioiosa utopia terzomondista. Senz’altro un film importante per comprendere retrospettivamente gli umori e la cultura degli anni 90.
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