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I racconti del cuscino

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su I racconti del cuscino

di Lehava
6 stelle

Sei Shonagon fu una dama di corte che servì l'imperatrice Teishi (Sadako) intorno all'anno 1000 durante l'epoca Heian. Fu autrice de "Il libro del cuscino" - un genere letterario (tramutatosi poi in "erotico") così chiamato in quanto, per consuetudine, era riposto nello scrigno in legno di cui era composto il guanciale tradizionale - un documento, forse più storico che letterario, arrivato fino a noi grazie a continue trascrizioni amanuensi, in vari formati e versioni (quattro le principali) e contenenti osservazioni, aneddoti, elencazioni di cose piacevoli e spiacevoli, curiose e insopportabili, un catalogo di preferenze e di giudizi, poesiole, lamentele, pettegolezzi. Un diario personale spiritoso e leggero.

Poco più che un "artifizio" per il gallese Greenaway, che partendo da questa opera lontana costruisce un quadro visivo sontuosa e complesso. Dove però l'immagine e la parola non trovano mai un equilibrio ed i sensi si perdono in una narrazione irrisolta e contraddittoria.

 

Nagiko, figlia di uno scrittore calligrafico, vive in un clima di amore e raffinatezza nella Kyoto dei primi anni '70. Il padre condivide con lei un rituale affettuoso: scriverle sul volto e, nel giorno del suo compleanno, recitare “Quando Dio creò la prima immagine d’argilla di un essere umano vi dipinse sopra gli occhi, le labbra e il sesso...quindi vi dipinse su il nome di ogni persona affinché il suo possessore non potesse mai dimenticarlo. Quando era soddisfatto della sua immagine, le diede vita...”. La zia, per addormentarla, legge alla piccola dei passi tratti dall'opera di Sei Shonagon, e, vista la fama, possiamo immaginarci la voce sottile della donna che scandisce l'incipit sulle stagioni: "L'aurora a primavera: si rischiara il cielo sulle cime delle montagne, sempre più luminoso, e nuvole rosa si accavallano snelle e leggere. D'estate, la notte: naturalmente col chiaro di luna; ma anche quando le tenebre sono profonde. E' piacevole allora vedere le lucciole in gran numero rischiarare volando l'oscurità, oppure distinguere solo le luci di alcune di loro. Anche quando piove, la notte ha un suo fascino. Il tramonto in autunno: malinconico quando i raggi del sole calano obliqui dalla vetta dietro cui tramonta, e i corvi a gruppi di due, di tre, di quattro si affrettano disordinatamente al nido; piacevole è anche ammirare gli stormi ordinati dei gabbiani rimpicciolirsi sempre più all'orizzonte. L'armonia del vento e il ronzare degli insetti, quando il sole è calato, infondono una dolce tristezza. D'inverno, il primo mattino: bellissimo, inutile dirlo, quando cade la neve. Bello è anche il candore della brina; oppure, oltre a questo, riattizzare il fuoco rapidamente, quando il freddo è più intenso, e attraversare le sale portando il carbone. E' anche piacevole verso mezzogiorno, quando l'ambiente si è intiepidito, vedere il fuoco del braciere, non più alimentato, ridursi a bianca cenere."

 

Nella cultura giapponese non c'è un vero confine tra cosa si scrive e come si scrive: il testo non deve dare solo piacere estetico. Alla forma è anche richiesta una armonia con il contenuto, ed un aiuto per la stessa comprensione. Shodo è una disciplina artistica e morale basata sullla padronanza del tratto, l'immediatezza del gesto, la continuità del ritmo, il controllo della forza impressa sul pennello. E' la "via della scrittura": un percorso di crescita interiore. Un'arte antica (intrinsecamente legata alla pittura) che si focalizza su semplicita', bellezza e, soprattutto, sulla connessione mente-corpo (non ha caso ha un messaggio spirituale profondo). Letteratura è anche questo. Annota la giovane Sei Shonagon: "quando mi sento così delusa da provare rancore verso il mondo intero, così depressa da non avere più desiderio di vivere, neppure per un istante, ma di voler fuggire lontano, dove non importa, se mi capitano tra le mani semplici fogli di carta bianca e un buon pennello, cartoncini bianchi o carta di Michinoku, immediatamente mi rassereno e penso che la vita valga ancora la pena di essere vissuta." 

 

Questo idillio di mente, corpo, anima, si rompe precocemente per Nagiko: assiste infatti del tutto casualmente ad una scena di umiliazione che l'amato padre è costretto a subire dal proprio editore. Editore che evidentemente detiene un potere incontrastato nella famiglia della ragazzina, visto che, tra l'altro impone alla stessa un matrimonio combinato. Unione che si risolverà velocemente con una fuga della protagonista davanti alla grettezza del coniuge. Trasferitasi a Hong Kong, Nagiko si adatta ai lavori più umili pur di risultare introvabile a marito e famiglia d'origine (la quale famiglia, tanto importante nella prima mezz'ora del lungometraggio, scompare inspiegabilmente dalla narrazione). Appreso l'inglese, comincia a lavorare come segretaria per uno stilista nipponico per poi divenire modella. La sua vita è però scandita dall'ossessione per la scrittura sul corpo: come a voler ritornare all'innocenza perduta (perduta dal padre prima di lei, e da lei quindi, guardando il padre) o forse, più prosaicamente, solo alla ricerca puntigliosa degli unici "due grandi piaceri, quello della carne e quello della letteratura", come le ripeteva la zia. Si aggira instancabilmente per la città procacciandosi uomini che sappiano reiterare l'antico cerimoniale del pennello e inchiostro sul proprio corpo: un "amante calligrafo perfetto" è la sua sola finalità. E' in questo vorticare vuoti di sensi e tratti che si imbatte in Jerome, un traduttore inglese, che le svela, inavvertitamente, una nuova via. La "sua" letteratura sarà scritta su pelle altrui: Nagiko scrittrice calligrafa. E non è ben chiaro allo spettatore (ma neanche al regista, si ha il sospetto) se per caso o per determinazione, il destinatario concupito di tale letteratura sarà proprio l'editore che tanto offese il padre. Jerome, poco più che carta, è amante di entrambi e si fa corriere di tredici testi erotici. Solo che, tra il quinto ed il sesto, un moto di gelosia della ragazza causa una frattura fra i due. Come un novello Romeo il traduttore vorrebbe inscenare un proprio fasullo suicidio per riconquistarla, ma rimane vittima del farmaci e muore. A questo punto non resta che la vendetta: l'editore va annientato. Colpevole di avere violato il corpo del padre, e dell'amante (tra l'altro, riesumato e scuoiato per serbarne la pelle con il testo scritto). Il finale è consolatorio e poetico: Nagiko ha 28 anni, 1000 la separano da Sei Shonagon. Ora, donna e madre, è pronta per scrivere il suo libro del cuscino.

 

Supportato da una eccellente fotografia (che fa sfoggio di una incredibile gamma di colori, opachi/lucidi e sfumati soprattutto sui volti), Greenaway dà prova di consolidate capacità registiche ma si perde poi in un montaggio fatto di sovrapposizioni, strati di video che scorrono e si rincorrono, parole che non coincidono, linguaggi verbali che si accavallano (giapponese con sottotitoli, doppiaggio ...), flashback tra passato antico, passato prossimo e presente, luoghi che si confondono (Kyoto che è Hong Kong e viceversa).

La sceneggiatura certo non aiuta: alcuni passaggi sono incomprensibili (il padre che scompare?), le coincidenze sfidano l'incredibile (ma l'editore dove sta, in Cina o in Giappone o in entrambi? E guarda caso, ha come amante Jerome che Nagiko ha appena incontrato?).

Non è di sicuro la veridicità uno dei target del regista gallese, questo è poco ma è sicuro! Solo che, in questo "I racconti del cuscino", non regge proprio il senso complessivo dell'opera.

L'esplicito richiamo finale allo "scrivere dell'amore e trovarlo" stride con la negazione di questo sentimento lungo tutte le due ore precedenti: con uno Jerome sfrontato e spudorato ed una Nagiko devota alla sola vendetta.

La difficoltà nell'espressione dell'erotismo si nasconde dietro alla facile comparazione fra scena cinematografica presente e immagine di stampa antica (le posizioni). Manca empatia fatta carne e sangue - sebbene corpi nudi si sprechino, soprattutto maschili. La patina itellettuale - ma non concettuale - non giova.

Il didascalismo diffuso ben si confà alle rigide regole calligrafiche descritte ma manca della grazia e poesia necessaria. Per dirla alla giapponese, non c'è "shibusa". Non ultimo, nella compiutezza limitante e spiazzante del finale che obbliga lo spettatore alla "accettazione" passiva del punto di vista quando una delle caratteristiche somme dell'estetica nipponica è proprio l'incompletezza come esplicito invito che l'artista fa all'osservatore affinchè esso si elevi a umano demiurgo della unicità della bellezza stessa.

 

I segni delle tue mani li ho impressi su tutto il corpo. La tua carne è la mia carne. Mi hai decifrato e adesso sono un libro aperto. Il messaggio è semplice: il mio amore per te. (J. Winterson "Scritto sul corpo")

 

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