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La casa del ángel

Regia di Leopoldo Torre Nilsson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La casa del ángel

di lostraniero
8 stelle

 

 

 

“Io prego Gesù, è bello. Dio è un vecchio con la barba”…

 

 

 

Questo film è dominato da una Dea-Porno-Madre.

E se tale figura – al tempo stesso – imperiosa e sfuggente, ha le labbra di un Bunuel, ci fissa con gli occhi di un Hitchcock, mostra le gambe alla Bergman e nasconde il culo che pare Welles, poco importa; essa viene fuori da un gemito teogonico di un tizio (corpulento e bonario, dal viso siglato da un paio di occhiali di uno spessore spropositato) che ha ben altro nome, nomea e tecnica dei ‘Fantastici Quattro della Bella Perversione’.

Leopoldo Torre Nilsson, che ai più dirà nulla ed ai pochi anche meno.

C’è una scena, nel discreto “Wakolda” della Puenzo (A.D. 2013), in cui il dottor Mengele – in giro per la pampa argentina in cerca di nascondigli e di gemelli omozigoti –, si fa costruire dei modelli di bambole per ingraziarsi il padre di una sua ambita ‘vittima’, artigiano capace ma squattrinato di quei giocattoli umanoidi. Sta discutendo con un impiegato della ditta che plasma la plastica dei pupazzi; alzano in aria dei prototipi e lo spettatore assiste ad una sterminata fila di burattini senza occhi e senza sguardo. Quasi una platea cieca che fissa, inutilmente, il mondo.

Verso l’ora intera di questo quinto lavoro di Torre Nilsson, invece, Ana Castro – l’inquieta 14enne protagonista della storia –, dopo aver ballato il suo primo ballo in società con l’affascinante e oscuro deputato del Congresso, Pablo Aguirre (alla ritrosìa della ragazza, il maturo fascinatore risponde con insolita lealtà: “Questo sarà pure il vostro primo ballo, ma potrebbe essere anche l’ultimo per me!”, considerato che il giorno dopo sarebbe andato a duello mortale), risale nella sua stanza e riprende i giri di valzer stringendo al petto una bambola inespressiva. Richiami filmici che aprono a collegamenti narrativi.

Il racconto della Puenzo è ambientato a fine anni ’50, proprio mentre l’Argentina si liberava dal peronismo che aveva ‘accecato’ il pubblico delle sale cinematografiche, sposando la volontà degli yankees di tagliare le scorte di celluloide per i giovani registi del Cono Sud del continente sudamericano. Troppa paura che, con tanti gerarchi e iene naziste riparate lì, qualche centrale uncinata avrebbe potuto usare il media cinematografico per fare proselitismo. Insomma, se volevi fare un film sulle dorate sabbie di La Plata, tra le pianure di Mendoza, tra gli sfondi lagunari di Corrientes o dentro ai ‘barrio’ di Buenos Aires o di Cordoba, a quei tempi dovevi rivolgerti ai ‘traficantes fronterizos’ che potevano portarti dal mercato nero qualche po’ di bobina nitrata. Che si vendeva a peso d’oro, va da sé.

La ‘nuova ola’, esile come un filo d’erba (dopo l’impasse post-war, arrivò la dittatura peronista, con censure, sabotaggi produttivi ed addirittura persecuzioni), viveva di questo e campava anche di strane contrapposizioni generazionali.  

LTN è figlio di un altro regista, quasi omonimo, Leopoldo Torres Rìos. Ma mentre quest’ultimo – ‘scoria’ finale di una scuola di pensiero che oscillava tra il ‘cinema sociale’ e la ‘cartolina folklorica’ – concentrava la sua arte sui drammi nazionalpopolari dei quarteri portegni della capitale, o su disadorne pitture di eventi quotidiani e borghesi, il suo figliolo ci mise subito dentro (l’esordio è del ’50) per ristabilire il confine poroso e infetto del Mistero. Trasse ispirazione da penne molto d’atmosfera (Bioy Casares e il maestro Borges), cercò tra gli operatori di macchina più eclettici che il mercato poteva offrire, si intrufolò in chissà quali sale di registrazione per trovare smaliziati compositori come Juan Carlos Paz. Studiò, a modo suo, sull’origine del male. Supponiamo. Infine, nel 1957, arrivò a questo lavoro che è già un capo-lavoro e pietra di paragone per molto cinema argentino a venire.

 

 

 

La casa del angel” (l’angelo del giudizio universale viene nominato dalla domestica Nana, profetizzando che la Terra verrà ricoperta da una pioggia di sangue caldo, “come quello dei polli e degli agnelli al macello”; un angelo affrescato domina il soffitto della casa di party, alcove e poker d’azzardo, dove i maturi giovani della ‘buona’ Baires ammazzano le notti insonni; ma, soprattutto, la statua di un angelo velato, spunta e sorregge il balcone della stanza di Ana), è un film febbrile. Angoscioso, per quanto lo possa essere – nello stile quanto nella sceneggiatura, tratta da un romanzo di Beatriz Guido, collaboratrice e poi moglie di LTN – un cinema che cerca, riuscendovi in buona parte, di raccontare sia sul piano psicologico/umano che politico/sociale il fallimento della nuova borghesia urbana. La sua inconsistenza morale e la corruzione (un’apologia del peccato è l’ultima notte, con la deflorazione brutale della minorenne e l’omicidio del rivale politico, da parte del giovane deputato conservatore), l’angariante fanatismo religioso (ma una religione che trasuda erotismo; vedasi la lettura della Bibbia della sorella Julieta che giunge alle pagine dedicate al re Salomone e alla sua amante, con citazioni di “muscoli della bocca” e di “seni gemelli immersi nei gigli”), la spregiudicatezza che rasenta l’autodistruzione di una classe sociale. “Un giornale chiuso, una pagina singola vietata, una sola frase soppressa rappresentano un’aggressione contro la libertà e la cultura, che la civiltà non può tollerare!”, esclama il liberale Aguirre-figlio, certo di poter trascinare con sé il voto dell’emiciclo parlamentare; ma il progressista Esquivel, rintuzzando l’omelia partita dal pulpito sbagliato, gli rinfaccia gli affari del ministro Aguirre-padre. Il grande business della moltiplicazione delle strade ferrate argentine, lanciate alla conquista delle Terre del Sud grazie ai corposi finanziamenti inglesi (processo che avvenne realmente tra il 1910 ed il 1915, ed andò di pari passo con il genocidio delle popolazioni indigene della Patagonia). L’ipocrisia è forse svelata. Ma la risposta non è politica. Uno schiaffo in pubblico. “Pistola, 20 passi, a morte!”.

Una storia di cinema che vibra di cinema, anche. Memorabile, da livelli di studio ‘ortografico’ della settima arte, l’uscita di Ana e della badante Nana che vanno in sala per assistere alla proiezione del “Broken blossoms” griffithiano. “Lillian Gish mi annoia terribilmente. Sempre a giocare alla santarellina!”, sbotta la donna matura, poco prima di essere interrotta da una maschera che si dispiace con il pubblico per il disguido ed annuncia la sostituzione del titolo in programma con il più carnale “The eagle”. Quasi un amplesso collettivo, con Rodolfo Valentino che slingua e scudiscia Vilma Banky. “Sono incollati come due mosche”. Già, perché “Si può imparare a baciare con quel film!”…

 

 

 

Fuor di dubbio che LTN giochi a fare l’auteur, ed in parte è visibile che egli lo sia realmente.

Ci sono delle scelte di ripresa (due o tre diagonali in opposizione che, magari citano ‘Orson the great’, ma anche spezzano quasi in vari capitoli la composizione della storia; angolature basse, e dei punti di ripresa dall’alto – uno dei quali chiude amaramente il montaggio – che segnalano il vezzo di astrarre gli elementi della scena e di sperimentare una riduzione del loro impatto visivo/emozionale), molto vicine al puro tecnicismo ma che risultarono allora come sferzate benefiche sulle carni compassate e pigre di una cinematografia che cercava un’identità. E la cercava, e forse la perse più volte e più volte la ritrovò, misurandosi (miscelandosi) tanto col ‘genere’ hollywoodiano che con le scuole cinematiche europee.

Tutto perfetto, dunque. No, non è così purtroppo. Ed è il risultato del gusto d’ognuno che guarda. Perché può anche apparire che quest’amalgama molto piena di ‘pieni’ (scenografie ripartite su equilibri diagonali, predilezione per il tono scuro e per interni soffocanti, presenza certosina di oggetti di scena), e troppo vuota di ‘vuoti’ (manca una apertura al paesaggio urbano, tranne qualche sprazzo all’interno di un parco pubblico e pochissimo altro), così carica di ambiguità (sprigionata dai personaggi come dalle contraddizioni della storia stessa) e leggera – al contrario – di interesse civile (per non dire ‘civico’), alla fine non giochi bene tutte le carte che ha in mano. O che il mazzo sia stato preparato con qualche asso di troppo.

 

 

 

All’ognicaso, si annoti quanto segue. Visto in una notte barocca, dal recensore barocco con il suo gusto barocco, gli s’affibbiano subito quattro stelle. Barocche.

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