Regia di Alessio Cremonini vedi scheda film
Alla sua opera seconda da regista, Alessio Cremonini con Sulla mia pelle affonda il coltello tra le piaghe della cronaca italiana e propone un asciutto resoconto dell’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi. Per chi non ricordasse la vicenda occorsa nel non lontano 2009, Cucchi è morto dopo un paio di giorni in carcere in circostanze non ancora chiarite dalla Magistratura. Arrestato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (20 grammi di hashish, 2 grammi di cocaina e qualche pasticca che si rivelerà essere solo Rivotril, farmaco antidepressivo utile a combattere l’epilessia di cui il giovane soffriva), il trentunenne Cucchi venne portato in caserma a Tor Pignattara, luogo in cui subisce un pestaggio da parte di tre carabinieri.
Nel ripercorrere la storia, Cremonini parte dal giorno della morte di Cucchi, dal momento in cui due inservienti dell’ospedale carcerario Sandro Pertini lo trovano senza vita nella camera in cui era ricoverato. Attestata la morte del Cucchi Stefano, Cremonini ci riporta con un breve salto a qualche giorno prima, a una normale serata dell’autunno romano quando Stefano, come tanti suoi coetanei, sta trascorrendo una serata con un amico dopo essere stato al lavoro come geometra, essere passato a casa dei genitori e avere incontrato la sorella Ilaria. Scendendo dalla sua stessa automobile in sosta, è sottoposto a una perquisizione da due carabinieri in uniforme a cui presto se ne aggiungono altrettanti che hanno da poco terminato il loro turno. Poiché nei jeans del Cucchi vengono ritrovate sostanze stupefacenti, viene condotto in caserma e sottoposto a visite e interrogatori di routine fino a quando, poco prima della fantomatica foto segnaletica, viene pestato. Da lì, ha inizio il calvario che, di cella in cella e di agente in agente, lo porterà fino all’obitorio.
Lontano dal voler realizzare un j’accuse senza contraddittorio, Cremonini sceglie di sposare il punto di vista dello spettatore e di estraniarsi dalla vicenda, mostrando solo ciò che si sa, ovvero quello che gli atti giudiziari hanno testimoniato fino a oggi. Non si lavora di fantasia per ricreare salti di sceneggiatura da fiction all’italiana e, soprattutto, non si introducono giudizi di condanna nei confronti di nessuno. A differenza di quanto accade in Diaz di Daniele Vicari o in ACAB di Stefano Sollima, non mette in scena la violenza da parte delle forze dell'ordine ma la lascia sottintendere. Nessuno di noi sa cosa sia realmente successo in quella stanza o conosce chi abbia fatto cosa. Facendo fede alle testimonianze raccolte da anni di indagine, affida alle parole della vittima (poi raccontate da chi le ha udite) il compito di far luce sul dramma vissuto e sul dolore, che appare (come preannunciato da un detenuto albanese) traditore e in grado di manifestarsi con tempi che esulano dalla percezione sensoriale stessa.
Cremonini si trasforma quasi in giornalista e, come nessuno ha mai realmente fatto, ricostruisce dettagliatamente i resoconti di genitori, detenuti, medici, giudici e secondini mettendo in ordine gli eventi, le parole e lo scaricamento di responsabilità da parte di chi dovrebbe essere responsabile della nostra sicurezza, fisica o figurata. Se da un lato nessuna autorità giudiziaria si sofferma a capire cosa è successo prima al ragazzo (limitandosi a un infantile “sei arrivato ora da me” e “cosa è successo prima non lo so”), nessun medico o paramedico si preoccupa di curare il ragazzo come si deve. Assistiamo impotenti al comportamento di una giudice per le indagini preliminari che non si preoccupa delle ragioni per cui un imputato si presenta alla sbarra con il volto tumefatto ma anche a quello di una dottoressa che non mostra alcun interesse nei confronti di un paziente ricoverato con due vertebre rotte, disidratato e con evidenti problemi agli organi interni (che ne direbbe Ippocrate di chi giura in suo nome e si comporta in tale maniera? È forse il rifiuto del paziente di sottoporsi a un esame motivo sufficiente per non praticare l’esame stesso?). In un Paese civile, tutto ciò non dovrebbe mai accadere: in Italia però la magistratura è troppo impegnata a occuparsi di chi va a letto con chi o di chi si comporta da buffone per una copertina di rivista patinata per chiedersi del perché di una faccia piena di lividi… in Italia, il trattamento sanitario obbligatorio è qualcosa che andrebbe necessariamente rivisto: non va applicato esclusivamente a chi si ritiene insano di mente…
Non ne esce bene nemmeno la figura degli avvocati di ufficio, omuncoli spesso operativi in nome dello stipendio e non della legge (dis)uguale per tutti. Così come non si capisce perché il sistema delle regole che tanto vale per i detenuti e i loro parenti non debba valere per commissari, carabinieri e agenti vari. Dovrebbe anche essere rivisto quella convinzione tutta nostrana secondo cui la parola di un pubblico ufficiale vale più di quella di un semplice cittadino: non è forse un pubblico ufficiale un uomo come tanti altri con vizi, difetti e deviazioni? O la devianza è un’esclusiva di chi non indossa una divisa?
Con Sulla mia pelle, Cremonini più rigoroso che mai lascia spazio in scena a un magistrale Alessandro Borghi: l’attore ne sposa atteggiamenti, dizione e fisicità. Dimagrito, sofferente, emaciato e persino da cadavere, Borghi si spoglia della propria pelle per entrare in quella di Cucchi, ne diviene una sorta di fotocopia che lascia stupiti chi guarda. Seguendo l’antica tradizione della somiglianza (e non quella sempre più usurata della verosimiglianza), Borghi si dimostra di sapere reggere sulle sue spalle quasi ogni minuto della pellicola, senza timore di risultare pedante o morbosamente sacrilego. La sceneggiatura prevede che agli altri attori principali rimanga poco spazio a disposizione e, francamente, ciò dispiace: Max Tortora e Milvia Marigliano, nei panni dei genitori di Cucchi, avrebbero meritato ulteriore approfondimento ma è soprattutto l’intensa Jasmine Trinca nei panni dell’ormai iconica Ilaria Cucchi a suscitare in più occasioni un muto applauso.
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