Regia di Gustav Möller vedi scheda film
Nudità essenziale di sceneggiatura, il protagonista, unico, è ristretto in uno spazio minimo, due stanze e un corridoio dove la luce si fa sempre più fioca fino a lasciarlo nel buio totale. Asger è il modello dell’uomo sicuro di sé e delle sue idee, certo nell’interpretare quelle degli altri, purchè siano simili alle sue.
Asger Holm(Jacob Cedergren) è un poliziotto danese in servizio temporaneo in un centro chiamata per servizi di emergenza.
Sentiamo spesso qualche collega dirgli al telefono: “Presto tornerai in strada”, capiamo che sta scontando un provvedimento restrittivo per qualche vicenda o comportamento sotto censura, ma resta il mistero.
Asger ha un viso pulito, tranquillizzante, riceve telefonate con richiesta di aiuto, le smista alle pattuglie sul territorio dopo aver localizzato il caso sul monitor, intreccia brevi conversazioni per capire i termini del problema e fin qui nulla di speciale, ordinaria amministrazione in un asettico posto di polizia.
Ben presto però certi lati del carattere e qualcosa della storia pregressa che pesa sulla sua testa cominciano ad emergere, e non servono molte parole per dirlo.
E’ un tipo piuttosto insofferente, risponde ai sinistrati con una certa spocchia, li collega alle pattuglie sul territorio ma dà giudizi fuori luogo, il suo vicino d’ufficio, che s’intravede appena, non gli rivolge la parola, ma soprattutto ha il pessimo vizio di dare le risposte per gli altri, di farsi film mentali che non dovrebbero entrare nel suo tipo di lavoro, insomma non è quello che si dice un buon compagno di strada e presto ne sconterà il prezzo.
Detto questo sembrerebbe di essere di fronte ad un film in cui lo scavo psicologico sul personaggio sia affidato a sofisticate tecniche introspettive e la stilizzazione del personaggio coincida con situazioni nette, chiaramente rappresentabili.
Nulla di tutto questo, nudità essenziale di sceneggiatura è la scelta, Asger è ristretto in uno spazio minimo, due stanze e un corridoio dove la luce si fa sempre più fioca fino a lasciarlo nel buio totale.
Sulla scena è da solo, un breve flash e scompare anche il collega, le due trame che s’intrecciano (la sua e quella della donna che lo chiama disperata) vivranno in uno spazio autonomo, tutto mentale, mentre il presente, reale, è fermo lì, davanti al monitor.
Eppure quello spazio si affolla man mano di persone e situazioni, la donna gli ha detto di essere stata rapita, Asger travalica di molto il suo ruolo imbastendo un’ indagine a distanza che coinvolge vari soggetti, compresa una bambina di sette anni, figlia della donna, che la racconta a modo suo, come è normale faccia una bambina di sette anni.
Alla fine il castello dell’indagine si rivelerà inconsistente, la verità è un’altra, nulla è come sembrava, quel che resta è l’attesa del giorno successivo, quando Asger dovrà affrontare il processo disciplinare per fatti che non ci vengono descritti ma che ormai non facciamo fatica ad immaginare.
Un’ora e mezza è bastata per costruire intorno lui un dettagliato report di comportamenti disadattivi che fanno capire il perché dei suoi guai giudiziari prossimi venturi. L’atteggiamento disfunzionale che assume svolgendo il suo lavoro lo porta a costruirsi mentalmente un “caso” dove il “caso” non c’è, o comunque non è quello che immagina, lo spettatore può essere insospettito da alcune risposte che dà a gente che lo chiama, ma poi tutto diventa molto credibile, ed è il suo alto grado di coinvolgimento intorno ai suoi fantasmi mentali a contagiare la platea.
Asger è estremamente convincente, addirittura sembra diventare una specie di deus ex machina che salverà le vittime dal disastro, il personaggio è trattato con una sapienza sconcertante e grande mestiere nel far crescere sullo schermo realtà irreali, ma soprattutto nel farlo sembrare, anzi essere, un uomo sinceramente coinvolto nella vicenda orribile che si sta prefigurando.
Lo sconcerto finale che scatena la sua reazione rabbiosa è anche quello di chi, come noi, gli ha creduto.
Di Iben, la donna che lo chiama, il nome è l’unica certezza, ma Asger ne fa un thriller telefonico mozzafiato con un livello crescente di intensità.
Infine arriva il buio, quando tutto sembrava scoprirsi alla luce e la valenza del tema investe l’area delle scienze comportamentali, perchè Asger va studiato come il modello dell’uomo sicuro di sé e delle sue idee, certo nell’interpretare quelle degli altri, purchè siano simili alle sue. In alternativa scatta il giudizio e non di rado la condanna.
Stavolta nella morsa del falso giudizio è caduto lui, insieme a tutti noi, purtroppo, perché siamo tutti, comunque, “colpevoli”, difficile non esserlo.
Opera prima di Gustav Moller, molto applaudito al Sundance Film Festival, 3 candidature agli European Film Awards, proposto dalla Danimarca agli Oscar per miglior film straniero. Nessuno l’ha citato ma i meriti sono alti.
www.paoladigiuseppe.it
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