Regia di Asghar Farhadi vedi scheda film
L’ esame provocatorio e agghiacciante della vita, molto ben riuscito nelle prove precedenti, qui sembra perdere vigore, quasi che l’etica collassata stia mandando a pezzi anche l’estetica.
Dopo aver rivisto About Elly, quest’ultima fatica di Farhadi, Todos lo saben, mostra ancora di più la corda nel confronto.
Spostato il set dalle scroscianti sonorità del mar Caspio al rumoroso e frastornante vociare, ballare, abbracciare e baciare di un villaggio spagnolo circondato da vigneti e poco altro, ingaggiato un cast di prim’ordine che con Bardem tocca il vertice mentre gli altri gli fanno degna corona, il regista apre la sezione Concorso di Cannes 2018.
Coerente con l’assunto base del suo cinema, l’inconoscibilità del vero, forse addirittura la sua inesistenza, a vari fusi orari di distanza sembra che tutto il mondo sia, come si suol dire, paese.
Lo spazio si restringe, dall’orizzonte marino diventa piazzetta di paese, patio casalingo ingombro di piante e olezzante di fiori, stanze sovraccariche di mobili vintage dove la luce sembra faccia fatica ad entrare.
Eppure Todos lo saben non ha la tensione compatta, stringente delle sue prove precede che, quando si svela nel finale, è stato come triturato lungo la strada.
Troppo a lungo masticato, troppi indizi e troppo evidenti, troppo chiaro il bisogno di depistare l’attenzione, anche quella dello spettatore che resta in una specie di attesa delusa.
Non siamo nel divino mondo di Hitchkoch. dove katastrofè e katarsis s’inseguono fino a raggiungersi, dando quel colpo finale al cuore di cui il grande Maestro del cinema era sempre prodigo.
Qui c’illudiamo che ciò avverrà, quel vecchio meccanismo campanario sulla torre della chiesa esibito all’inizio, le ruote dell’ingranaggio polveroso che girano, girano, la vertigine dello spazio sottostante visto dalla finestrella, tutte cose del famoso repertorio di Vertigo – La donna che visse due volte.
Ma la citazione resta fine a sé stessa, serve solo a seminare un indizio che poi si perde per strada, travolto dall’ ipercinetismo dei protagonisti che fiacca l’attenzione.
Laura (Penélope Cruz), arrivata da Buenos Aires nel paese natale in Spagna per il matrimonio della sorella, è subito al centro di un intrigo insolubile che si tende fra passato e presente, e, stando all’occhiata finale scambiata col marito, anche al futuro.
Le sequenze iniziali con l’arrivo suo e dei due figli, i saluti, i riconoscimenti e i preparativi della festa sono un’apoteosi di confusione e rumorosità, forse è il sangue spagnolo, ci diciamo, o forse un problema di decibel.
Arrivato finalmente il gran giorno, con l’inutile macchietta del prete che avverte di lanciare il riso fuori dal sagrato altrimenti i chicchi s’infilano fra le piastrelle, si entra nel vivo, il sequestro della figlia adolescente di Laura che sparisce dalla sua camera mentre nel patio infuria la festa.
Perché la ragazza se ne stia tutta sola lì a farsi rapire mentre sotto ballano e cantano è cosa che non si capisce facilmente, e non lo capirà mai neanche il suo ingenuo corteggiatore dagli occhi blu.
Da quel momento, e fino al colpo di scena finale, alla mobilità e al chiasso subentrano immobilismo e silenzio, sembrano ingranaggi fermi, cala il silenzio e purtroppo a risentirne è il ritmo che diventa faticoso.
Ci sono troppe storie taciute dietro la facciata allegra della grande famiglia riunita, verità negate, rancori a malapena sopiti ma pronti a riemergere al primo colpo di vento.
Un clan pieno di madri, padri, figli, nipoti, nonni, zii e cugini, splendido affresco di prosperità e amore che solo in famiglia sembra possibile, si rivela ben presto se non proprio un covo di vipere, almeno un nido di ragni intenti a tessere tele da adagiare su antiche verità.
Di chi è figlia la ragazza rapita?
Quel signore piuttosto spiegazzato (tale almeno risulta vicino alla virile prestanza di Bardem)che arriva non troppo di corsa da Buenos Aires alla notizia del suo rapimento chi è veramente?
E’ forse il ricco imprenditore che al di qua dell’oceano la famiglia era felice di credere?
E perché non è arrivato con moglie e figli?
E dov’è mai finito il marito della sorella di Laura?
E perché il vecchio e malfermo patriarca ha il vizio di litigare al bar dopo aver alzato il gomito per via di una rabbia repressa che sembrano covare anche gli altri membri della famiglia?
Domande che certamente hanno una risposta che sapremo alla fine, come si conviene, ma dopo un defatigamento davvero eccessivo e soprattutto inutile, dove al parossismo di molte scene si avvita la lentezza di altre e la distonia subentra e disorienta.
L’ esame provocatorio e agghiacciante della vita, molto ben riuscito nelle prove precedenti, qui sembra perdere vigore, quasi che l’etica collassata stia mandando a pezzi anche l’estetica.
Al prossimo allora, mister Farhadi.
www.paoladigiuseppe.it
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