Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
Tonino, soprannominato barboncino, è un piccolo criminale di Taranto spesso dileggiato dai suoi complici e ormai usato semplicemente come palo. Al termine di una rapina la refurtiva rimane nelle sue mani e fiutando la possibilità di riscattare una vita fatta di stenti decide di scappare braccato dagli ex complici e da una loro banda rivale. Durante la fuga trova rifugio all’interno di un solaio dove vive Renato, uno strano personaggio che si finge un Indiano dal nome di battaglia di Cervo Nero.
Un western urbano firmato, pensato e scritto a più mani grazie anche all’aiuto dello stesso Rubini, ormai giunto alla sua tredicesima pellicola, e che questa volta ha deciso di dedicare alla sua regione d’origine un’opera quasi del tutto interpretata in dialetto e con sottotitoli indispensabili per captare discorsi pronunciati alla velocità della luce. Una pellicola al tempo stesso capace di essere letta su differenti piani narrativi. Il primo costruito come fuga fra i tetti della città e quindi visto in termini ascensionali. Un altro che vede Tonino come protagonista di una guerra fratricida fra bande criminali. Il terzo, forse il più tristemente subdolo e mediaticamente celebrato, le ciminiere dell’ILVA capaci di avvelenare l’aria di Taranto. Ad attendere Tonino nella sua fuga sui tetti e subito pronto a scollegarlo dai problemi di ogni giorno, c’è Renato, un povero “MI-NO-RA-TO”, come ama scandire lo stesso Tonino, che nel ladro vede “L’uomo del destino” arrivato grazie all’intervento del ‘Grande Spirito’, oltre che un amico dal quale non saprà separarsi facilmente. Rocco Papaleo si cala perfettamente nel ruolo di un personaggio che frequenta esclusivamente i tetti della periferia e le proprie fantasie e che ormai è mal sopportato da vicini ed è anche del tutto abbandonato a sé stesso a causa della scomparsa del padre morto per colpa dei fumi dell’ILVA. Esattamente come Tonino anche Renato desidera la fuga da una quotidianità che ormai non gli appartiene più, con numerosi rapporti ormai corrosi esattamente come nel caso del suo sodale. Completa l’opera una fotografia magistrale della periferia di Taranto firmata da Michele D’Attanasio e una colonna strumentale e malinconica di Ludovico Einaudi, esattamente come la vita dei due protagonisti. Film onirico e al tempo stesso tremendamente ancorato alla vita di tutti i giorni e per questo di difficile classificazione perché sempre in bilico fra dramma e commedia.
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