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Nitrato d'argento

Regia di Marco Ferreri vedi scheda film

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La recensione su Nitrato d'argento

di ed wood
8 stelle

Il testamento di quello che, a mio parere, è stato il più grande genio che la nostra cinematografia abbia mai avuto è un film coerente con l'evoluzione che, nel corso degli anni, ha avuto la sua inconfondibile poetica. "Nitrato d'argento" è il film che dovrebbe sancire definitivamenre il primato dell'immagine sulla persona, dell'oggetto-film sulla "carne" viva umana. Dico "dovrebbe", perchè in realtà le cose non stanno proprio così e il film che avrebbe dovuto essere inappellabilmente mortuario si rivela invece ancora ricco di residui insopprimibili di vita vera. Se infatti il film rinuncia ad ogni codice narrativo (Ferreri dichiarò pochi anni prima di morire di voler fare un flm dove protagonista non fosse un personaggio, ma l'immagine stessa) e se l'incipit/excipit con la sala piena di manichini parrebbero professare senza dubbio il nichilismo del regista, ci sono nel corso del film diversi elementi che contraddicono questo presupposto. Negli episodi (non tutti riusciti e brillanti) con cui Ferreri compie questo excursus novecentesco nella Storia del Cinema visto/vissuto nelle sale, l'immagine filmica proiettata sui grandi schermi di tutto il mondo incanta, ammalia, talora domina e prevarica, ma non si sottrae mai (nello sguardo del regista) ad una sana dialettica con chi sta al di qua dello schermo: lo spettatore popolaresco, chiassoso, rissoso e gaudente, che pare interagire brutalmente con le immagini proiettate, in un caotico corto circuito dove colore, bianconero posticcio o di repertorio creano un vitale e vibrante ibrido dove l'immagine filmica, da immateriale ed illusoria, si fa palpabile e carnale. L'omaggio, anti-retorico e non-riconciliato, di Ferreri al cinema si tiene ben lontano dall'operazione-nostalgia di Tornatore (concedendosi al limite qualche fellinismo qua e là, e regalandoci la chiccha di un backstage di "Ladri di biciclette"), diventando invece un'ennesima occasione con cui il grande cineasta milanese ripropone, con le consuete "inquadrature celibi", il suo lucido discorso sulla società e sulla natura delle persone: nel commiato a Rodolfo Valentino e in altri momenti, viene ripreso il tema del fallimento del maschio; nell'episodio ungherese e in quello americano, la prospettiva internazionalista ("Nitrato d'argento" è uno dei film più "apolidi" di sempre, rfilessione implicita anche sulla globalizzazione imminente); nell'episodio splendido del cine-forum, c'è il discorso sui giovani e sulla necessità di rivoluzionare la cultura. Vale la pena di soffermarsi su quest'ultima parte, che è un po' il nocciolo teorico del film e di tutto un percorso poetico. I giovani si ritrovano ad assistere a proiezioni semi-deserte dei capolavori di Rossellini, mangiando spaghetti (il cibo, altra ossessione ferreriana), e un ragazzo teorizza l'avvento di un cinema frammentato in migliaia di immagini disordinate, fossero anche di film trash, proiettate in contemporanea su tutti i muri. Non è forse la realtà dei nostri giorni, dell'attuale epoca di internet e degli smart-phone, dove l'immagine è disponibile in qualunque momento e in qualunque supporto, slegata da ogni senso, puro elemento decorativo? Non è forse ciò che accade in tanti equivoci "circoli ricreativi e culturali"? Ferreri, in tempi non sospetti, fiutava l'avvento di un'era di bombardamento mediatico, di svilimento dell'immagine, di reificazione del cinema e dello spettatore (esito peraltro già raggiunto nel 1969 di "Dillinger è morto"). Ma ancora una volta, quando il nichilismo pare senza alternativa, ecco che l'immagine potente di Ingrid Bergman travolge un gruppo di clienti di un ristorante: è la "grande bellezza" che compie il suo disperato urlo. 

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