Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Sì, il cazzotto ti arriva. D’altronde in mezzo a tutte quelle siringhe brutalmente ficcate nelle vene non può non salirti un brivido lungo la schiena. Detto francamente, il colpo fa centro, irrimediabilmente. Ed è giusto che sia così. Perché prima dell’opera seconda di Danny Boyle – che una decina di anni dopo si sarebbe aggiudicato un discutibile Oscar con The Millionaire, emblematico per cambiamento di stile e di istanze – mai si era messa in scena una storia così brutale di drogati e depressi, un sottobosco (ir)reversibile in cui la simbologia cristiana gioca il suo porco ruolo – lo spacciatore, tanto per fare qualche esempio, viene accreditato come Madre Superiora, senza dimenticare il funerale di Tommy e il valore della famiglia, quest’ultimo per quanto trasversale – e la redenzione, più che una chimera, è una difficile operazione di ricognizione di sé. Una ricognizione del dolore, per dirla alla Gadda, contaminata da trascendenze (come dicono gli autori, Boyle e Irvin Welsh, il romanziere che ha ispirato il film e che compare in un cammeo) scorsesiane – per l’illustrazione di “quei bravi ragazzi”, che vivono la strada con il lato animale dell’empirismo, kubrickiane – l’ossimoro dell’apologia accusatoria della violenza, ossia la rappresentazione apparente di un compiacimento violento che in realtà è la più aspra delle accuse, di un certo cinema del primo Almodóvar – credo per un certo humor nero, sottilissimo e cinico anche nella rappresentazione dell’ambiente famigliare e della morte, volendo anche di Greenway – non solo per McGregor ma anche per la raffigurazione dei deliri dei personaggi.
Con Trainspotting – il criptico titolo vuole far trasparire il lato metaforico dei treni: mica solo Fossati c’aveva pensato che con “un treno a vapore, di stazione in stazione, di porta in porta, il dolore passerà” – Boyle soddisfa due esigenze: manifesta come l’esperienza cinefila possa essere messa in scena senza compiacimenti autoreferenziali e dimostra che si può affrontare con tono sarcastico e dissacratorio un tema assolutamente penoso come quello della tossicodipendenza misera. Il film non è il capolavoro incensato a destra e a manca dalla giovane critica e passato ormai di diritto nell’olimpo di cult: cult lo è, senza dubbio, come ogni film destabilizzante per la generazione di turno. Oggi, a più di un decennio di distanza, verrebbe da dire che “Trainspotting” ha forgiato una generazione, ma che allo stesso tempo ha subito il passare degli anni, invecchiando a poco a poco. Tornando all’oggetto filmico in sé per sé, sarebbe interessante porre l’attenzione sulla deriva surreale dell’opera. Mica roba da niente il tuffo beota nel cesso malfamato del pub più squallido di Edimburgo sfociante in un divenire acquatico a metà tra l’alienazione di Dustin Hoffman nella piscina de Il laureato (e ci starebbe bene The Sound Of Silence di Simon&Garfunkel) e alle allucinate visioni di Jon Voight uomo da marciapiede: quel fluire libero e sconnesso alla ricerca della supposta perduta (che poi è vita che si confonde con morte, superamento delle barriere e affossamento continuo); o il delirio malsano della reclusione in camera con ascendenze esorcistiane; per non parlare dell’annegamento senz’acqua nel tappeto rosso, red carpet che ha più volte visto passare il fratello scozzese Sean Connery, vero punto di riferimento (e di invidia) per i giovani del luogo per come sia riuscito a sfondare pur partendo da una base (quella di Edimburgo) non esattamente perfetta.
I vari personaggi del coro filmico non potranno mai essere sean-connery: troppo sensibile Renton (finto cattivo in un mondo spietato), troppo irruento Begbie, troppo idiota Spud, troppo opportunista Sick Boy, troppo debole Tommy, troppo stronza Diane. Quel che non convince del tutto è il ruolo della droga: se il film, da un punto di vista artistico e tecnico, può ritenersi, tutto sommato, ben fatto ed abilissimo (di fondo è originale, ma raschia raschia qualche banalità salta all’occhio), è l’aspetto sociologico a lasciare un po’ perplessi. Boyle e Welsh non denunciano, raccontano. E il rischio che si potrebbe correre con tanto sensazionalismo, purtroppo, è di non capire fino in fondo quale sia il vero messaggio di Trainspotting: quant’è labile il confine tra barocchismo della rappresentazione e circospetta induzione nell’ambiguità delle parvenze. Va bene lo “scelgo la vita”: ma quel monologo non è di quanto più sarcastico possa esserci sulla società dell’immagine americocentrica? Non so. Siccome conosco molti spettatori e non confido molto nella dicotomia delle loro sensazione, purtroppo temo che possano traviare il senso del film. Capita. Fatto sta: il film non è affatto brutto, gioca non di rado con scaltra furbizia e va a segno. Poco male per un film girato con quattro lire nell’interland scozzese. Che, sotto sotto, è uno dei più romantici esempi di cinema sentimentale in cui la disperazione dell’irreversibile assume i contorni della poesia di Rimbaud. Film endovena sull’angoscia della mancanza di riferimenti. Gratta gratta, è un film di cuore in cui va a braccetto con l’istinto e la razionalità va a farsi fottere.
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