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Oro verde - C'era una volta in Colombia

Regia di Cristina Gallego, Ciro Guerra vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Oro verde - C'era una volta in Colombia

di yume
8 stelle

La svolta inattesa degli anni settanta, la nuova corsa all’oro e l’isolamento autentico di sacche etniche destinate fatalmente alla sparizione, sono l’ultimo capitolo della storia delle colonizzazioni nel Sud del mondo, e la corsa all’ ”oro verde” è il tragico tassello di una storia secolare, una guerra combattuta con altri mezzi.

locandina

Oro verde - C'era una volta in Colombia (2018): locandina

Colombia settentrionale, regione de La Guajira.

E’ il tempo della bonanza marimbera, fra il 1968 e il 1980, quando iniziò il traffico di marijuana e un clima di spietata violenza modificò radicalmente una civiltà millenaria depositaria di tradizioni ancestrali.

Cristina Gallego e Ciro Guerra scelgono di ritrarre la loro terra e il suo doloroso destino costruendo un epos diviso in cinque canti.

Racchiude la storia una cornice, il canto proemiale e l’epilogo di un pastore (Sergio Coen), l’aédo omerico di mitica memoria, che parla della vicenda eterna dell’uomo quando si perde perchè dimentica o tradisce le sue radici.

In un tempo circolare in cui tutto cambia per poi tornare al punto di partenza, quel pastore consegnerà due caprette alla giovane Indira (Aslenis Màrquez), sopravvissuta alla mattanza del suo clan, e lei riprenderà a vagare da sola nel deserto, forse per un nuovo inizio, o forse per arrivare al mare, là dove tutto finisce, seguendo la strada percorsa dalla vecchia di etnia Wayuu che a tratti, presenza simbolica, appare nel corso degli eventi.

 

Natalia Reyes, José Acosta

Oro verde - C'era una volta in Colombia (2018): Natalia Reyes, José Acosta

Rapayet (José Acosta) e Úrsula (Carmiña Martínez) sono i protagonisti.

Intorno a loro i membri di clan che vivono di pastorizia e coltivazione della terra,seguendo regole dettate da una cultura matriarcale che impone il suo controllo sulla vita sociale e detta regole precise in fatto di matrimoni.

 La scena iniziale di ballo, la yonna, ripercorre splendidamente il rituale di corteggiamento degli uccelli e Rapayet, membro di un’etnia inferiore, danza con Zaida (Natalia Reyes), bellissima giovane Wayuu, uscita dal tradizionale isolamento di un anno e ormai pronta per il matrimonio.

L’unione fra due membri di caste differenti è subordinata alla cospicua dote richiesta: 30 capre, 20 mucche, due muli e 5 collane.

 Come raccogliere tanta dote? Basta un incontro casuale, mentre Rapayet e il cugino Moisés portano a vendere sacchi di caffè nel paese vicino.

Sulla spiaggia c’è una comunità di hippies statunitensi, i Peace Corps, vivono la vita che allora si credeva libera praticando il nudismo e cercando marijuana. Qualcuno distribuisce anche volantini con “ No al comunismo”, e al grido di “Viva il capitalismo” la presa sui due indigeni in cerca di fortuna è molto facile.

Nell’interno del territorio Anìbal, un cugino possidente, coltiva grandi estensioni di “erba selvatica”, i giochi sono presto fatti, i pacchi di marijuana si moltiplicano e potenti Suv vanno e vengono su sentieri sterrati che pian piano saranno seminati di cadaveri.

L’idea che un’erba selvatica (titolo del primo canto) possa cambiare le sorti di quel mondo sembra assurda, forse addirittura semplicistica, ma Cristina Gallego e Ciro Guerra riescono a costruire un racconto in cui tutto si tiene, e il passaggio graduale dall’affresco antropologico al gangster movie e alla guerra per bandediventa naturale.

Ma se il mondo esterno arriva rapace con i suoi capitali ad alterare gli equilibri di una cultura millenaria, non per questo quella cultura è messa su un altarino. I due registi sono molto attenti ad evitare intenti apologetici, la contaminazione si fa strada senza problemi, nessuno che si opponga al cambiamento, nessuno che pensi alle sue drammatiche conseguenze.

Nell’ultimo canto un gruppo di anziani Wayuu bollerà Ursula, la matriarca della famiglia di Rapayet, dicendole: "Non vivi più come Wayuu".

Ma loro non sono da meno, la corsa all’”oro verde” ha contaminato tutti e tutti pagheranno.

 

Carmiña Martínez, Natalia Reyes, José Acosta

Oro verde - C'era una volta in Colombia (2018): Carmiña Martínez, Natalia Reyes, José Acosta

L’inconsueta commistione fra un arcaismo attardato che si ostina ad imporre i suoi rituali e il vento del nord che arriva con modelli violenti di convivenza basata sul profitto, scatena una guerra mai vista, un autentico action movie dove tutti muoiono in un regolamento di conti tanto assurdo quanto fulmineo. Il delirio scatenato da avidità, ambizione, lussuria, prevaricazione e lotta per il potere è ancora più devastante in un terreno del tutto privo di controllo sociale, l’uomo della pietra e della fionda ha solo imparato ad imbracciare fucili e mitragliette.

 

scena

Oro verde - C'era una volta in Colombia (2018): scena

E’ chiara la matrice mitico/antropologica che i due registi hanno prediletto per narrare una vicenda molto attuale, scavando così nelle ragioni più intime che hanno portato un intero mondo ad autodistruggersi.

Ma forse non è esatto parlare di autodistruzione, la cultura dei Wayuu, devastata dall’arrivo dei bianchi yankees consumatori di marijuana e dai rapaci commercianti/esportatori che con i loro aerei aspettano le consegne in mezzo alla foresta, sconta la propria impreparazione di fronte al massiccio arrivo di modelli lontani millenni dai loro.

La società dei consumi è un feticcio troppo seduttivo per lasciare spazi di reazione, nulla sopravvive al fascino di borsette firmate che stonano ridicolmente portate sulle tuniche colorate di quelle donne, all’attrattiva di feste alcoliche e donne a disposizione senza l’osservanza di rituali obbligati dalle tradizioni, alla bruttura di metafisici palazzi di cemento che spuntano nel deserto al posto di capanne di pietra e fango, a letti e poltrone istoriati alla moda di Versailles che prendono il posto delle amache variopinte.

Tutto questo si paga, in altro modo lo raccontarono i tragici nell’Attica del V secolo avanti Cristo, con altri nomi i poeti continuano a raccontarlo oggi.

Le leggi del mercato sconfiggono l’innocenza, nulla può opporsi all’interesse privato, le culture minoritarie diventano reperti museali.

Resta l’attonito silenzio di Rapayet, la sua innocenza contaminata riesce a mandare ancora stanchi segnali, l’amore per la famiglia che vede sparire intorno a sé lo fa sentire responsabile, e in effetti lo è, ma sopravvive in lui un’umanità che gli fa dire al nemico col fucile puntato: “Siamo già tutti morti”.

Werner Herzog

Lo and Behold - Internet: Il futuro è oggi (2016): Werner Herzog

“Nel mondo non ci sono più popoli o luoghi sconosciuti…” aveva concluso Werner Herzog in Ten Thousand years older.

La tribù Uru Eu Wau Waus, l’ultima fra le tribù nomadi della foresta fluviale amazzonica, ferma al paleolitico, aveva avuto per dieci minuti l’unico contatto col mondo civile, una troupe di registi, cameramen e giornalisti inviati a filmarli. Vent’anni dopo, la fine. Il salto di mille anni li aveva stroncati, il progresso verso il nulla ne aveva ucciso la maggior parte di varicella e influenza durante il primo anno.

In Colombia è avvenuto su larga scala qualcosa di peggio, la compromissione ha coinvolto tutti, sono state colonizzate le coscienze, non solo i territori, e l'affermazione dei cartelli della cocaina di Medellin è partita da lì.

 

locandina

El Abrazo de la Serpiente (2015): locandina

Ciro Guerra aveva già puntato il focus sul tema della violazione dell’autodeterminazione di minoranze da parte dell’uomo bianco in El abrazo de la serpiente, vincitore alla Quinzaine di Cannes 2015, suo terzo lungometraggio nominato agli Oscar come miglior film straniero.

Lì ilracconto era stato condotto nella prospettiva storica e documentaria della vita dei tre protagonisti, basandosi sulle memorie di Theodor Koch-Grünberg Richard Evans Schultes, un etnologo tedesco ed un biologo statunitense, che affrontarono l’Amazzonia in tempi diversi con scopi diversi e incontrarono lo sciamano senza più memoria e arti magiche, Karamakate.

Qui il “ realismo magico” dà vita ad una visione più “lucidamente attonita” del reale, è uno sguardo che mentre si rivolge alla Colombia si allarga a metafora del mondo e l’ideale vicinanza alla “mitologia surreale” di Garcia Marquez in Cent’anni di solitudine, 1967, è ben presto annullata da una presa sul reale che non ha quel sapore di costruzione scenografica che tanto dispiacque a Pasolini dettandogli la sua celebre stroncatura: “… I personaggi sono tutti dei meccanismi inventati talvolta con splendida bravura da uno sceneggiatore: hanno tutti i «tic» demagogici destinati al successo spettacolare…”.

 

Ciro Guerra

El Abrazo de la Serpiente (2015): Ciro Guerra

La svolta inattesa degli anni settanta, la nuova corsa all’oro e l’isolamento autentico di sacche etniche destinate fatalmente alla sparizione, sono realtà con cui Guerra e Gallega si confrontano senza ricerca di spettacolarità. Nell’ultimo capitolo in ordine di tempo della storia delle colonizzazioni nel Sud del mondo, la corsa all’”oro verde” è il tragico tassello di una storia secolare, una guerra combattuta con altri mezzi .

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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