Regia di Salvador Simó vedi scheda film
Il finto backstage del terzo film di Buñuel in una sintesi estrema della sua arte
“Spagnolo di nascita, francese di adozione e rivoluzionario per vocazione” Buñuel mise insieme le sue tre anime quando, nel 1930, partì con l’amico anarchico Ramón Acín ((fucilato dai franchisti nel ’36) Pierre Unik, come assistente e l'operatore Elie Lotar, per uno dei posti più miseri della Spagna, Las Hurdes, 52 villaggetti sparsi fra rocce e desolazione, che i tetti di lastroni piatti in pietra grigia, visti dalla mulattiera che correva in alto lungo la dorsale rocciosa, facevano sembrare un labirinto.
Un labirinto di tartarughe.
Terra senza pane, Las Hurdes, divenne il suo terzo film, dopo Un chien andalu e il disastro parigino de L’âge d’or, film manifesto del surrealismo girato con Salvador Dalì (con cui finì l’amicizia e non tornò più) che scandalizzò i borghesi mentre i fascisti insorsero incendiando la sala dove lo proiettavano.
L’ostracismo successivo, dalla Francia al Vaticano, costrinse lo squattrinato regista al ritorno in Spagna.
Buñuel nel labirinto delle tartarughe, disegnato di Salvador Simó, tratto dall’omonimo fumetto di Fermín Solís, vincitore del premio Efa (European Film Awards) per l’animazione e premio della giuria, anche per la miglior colonna sonora originale (di Arturo Cardelús), all’ultimo festival di Annecy, candidato al premio Goya,racconta questomomento della vita del giovane Buñuel, una parentesi breve e poco nota, il making off mancante di quel film che lui volle fortemente, nonostante le difficoltà economiche e il clima di generale diffidenza ed emarginazione che lo circondava.
Se non conoscessimo affatto Buñuel, la carica eversiva della sua arte e la forza del suo impegno sociale di tutta la vita, basterebbe questa ricostruzione per capirlo.
L’animazione è una scelta insolita e vincente, un’esperienza estetica funzionale alla materia del racconto, in bilico fra realtà e ricostruzione onirica e memoriale, biografia e creazione artistica.
Il racconto, l’antefatto, il viaggio della piccola troupe con i pochi soldi vinti alla lotteria da Ramòn, le difficoltà a una a una superate, le riprese fra le case e la gente di Las Hurdes, le storie di miseria, malattia, morte, usanze ataviche di un mondo abbandonato dalla Storia, si alternano alle visioni oniriche che rincorrono Luìs ogni notte e sono interrotte da brevi inserti analogici tratti da Terra senza pane, in una palette di colori che oscilla tra il bruno carico di ombre e l’ocra pastello di un habitat senza Dio e senza verde, dove sopravvivere è una scommessa quotidiana.
Facendo base nell’unico posto vivibile della zona, un antico convento che ora affitta stanze, i quattro partono ogni mattina all’alba per i villaggi a girare le riprese in una lotta contro il tempo e i soldi agli sgoccioli.
Uno script vivace, il linguaggio semplice delle cose dette tra amici, dà la giusta misura al racconto, è vita reale sul set, backstage tra quotidianità e trucchi cinematografici, la messa in scena della nascita di un’opera che nel suo realismo estremo svelava la surrealtà del reale spingendolo al confine estremo.
Due scene sono scelte come emblematiche dello sguardo visionario che forza la realtà per svelarne l’altra faccia nascosta e più vera: la caduta della capra dalla roccia e la decapitazione di un gallo vivo.
L’animazione e i due frames del film sono una lezione sul surrealismo in pochi minuti, “penetrare senza farsene accorgere”, tradurre in pratica attraverso il cinema le lunghe dispute parigine di quegli anni d’oro, quando ancora, disse poi Breton con rammarico, ancora ci si scandalizzava.
Le didascalie finali ci raccontano del film e della storia di Spagna, così apprendiamo che il nome di Ramòn Ucìn, operaio anarchico che aveva vinto alla lotteria 20.000 pesetas , fu fatto sparire dai credits fino a quando il regista, ormai raggiunto il successo, volle che ricomparisse. Nel 1960 Buñuel rimise in distribuzione il film con il nome di Ramón devolvendo l’incasso alle sue figlie.
Su Las Hurdes e la sua storia racconta lo stesso Buñuel in Dei miei sospiri estremi, Milano, Rizzoli.
“In Estremadura, tra Caceres e Salamanca, esisteva una regione montagnosa e desolata dove trovavi solo rocce, brughiere e capre: Las Hurdes. Un tempo, quelle terre alte erano abitate da ebrei che fuggivano l'Inquisizione e da banditi. Avevo appena letto uno studio esauriente sulla regione, scritto dal direttore dell'Istituto francese di Madrid, Legendre. Lettura che m'interessò moltissimo. Un giorno, a Saragozza, parlavo della possibilità di fare un film documentario su Las Hurdes con l'amico Sanchez Ventura e un anarchico, Ramon Acin, il quale mi disse all'improvviso: "Senti, se prendo il primo premio, te lo finanzio io, il tuo film". Due mesi dopo vinse alla lotteria, se non il primo premio, una bella sommetta. E mantenne la parola. Per girare Las Hurdes, o Terra senza pane feci venire da Parigi Pierre Unik, come assistente, e l'operatore Elie Lotar. Yves Allégret ci prestò una macchina da presa.
Disponendo solo di ventimila pesetas, una ben piccola somma, mi diedi un mese di tempo. Quattromila pesetas andarono nell'acquisto, indispensabile, di una vecchia Fiat che all'occorrenza riparavo io stesso (ero un meccanico piuttosto bravo).
In un convento abbandonato dopo le misure anticlericali prese da Mendizabal nel XIX secolo, il convento di Las Batuecas, esisteva ancora un minimo di foresteria, basata su una decina di camere. Fatto notevole: l'acqua corrente (fredda).
Ogni mattina, durante le riprese, si partiva prima dell'alba. Dopo due ore di automobile dovevamo proseguire a piedi, col materiale in spalla. Quelle montagne diseredate mi hanno conquistato subito. La miseria degli abitanti mi affascinava, come pure la loro intelligenza e l'attaccamento al loro paese perduto, alla loro "terra senza pane". In almeno venti villaggi, il pane quotidiano era un oggetto misterioso. Ogni tanto qualcuno portava dall'Andalusia una pagnotta rafferma che serviva come moneta di scambio. Il film fu proiettato una prima volta al "Cine de la Prensa". Era muto e lo commentavo io stesso al microfono.”
www.paoladigiuseppe.it
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