Regia di Álvaro Brechner vedi scheda film
Venezia 75. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Nel giugno del 1972 José Mujica, Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro vennero arrestati dalla polizia uruguaiana insieme ad altri dirigenti del movimento Tupamaro a cui appartenevano. Quest'ultimo attivo dal '65 mantenne la propria attività, almeno inizialmente, nella lecita forma della propaganda politica finendo per radicalizzare la propria anima a partire dal '68 allorché adottò, in buona parte, la lotta armata come forma estrema di obiezione alle pressanti restrizioni volute dal presidente Álvaro Pacheco, volte a sopprimere le libertà individuali e sociali dei cittadini uruguaiani oltre che ad eludere qualsivoglia denuncia di illecita amministrazione dello Stato. Decimato dagli squadroni della morte della polizia uruguaiana i Tupamaros furono sterminati e coloro che non furono uccisi scapparono all'estero oppure vennero, per l'appunto, imprigionati nel 1972. Durante la dittatura che seguì il golpe del '73, le condizioni di vita dei leader catturati divennero ancor più aspre e tali si mantennero fino alla scarcerazione avvenuta nel 1985 a seguito della progressiva restaurazione della democrazia nel paese sudamericano che coincise con la fine della dittatura e la reintegrazione delle libertà civili.
Accade che l'arte sia sempre tra le prime vittime in uno Stato di Polizia (poco importa se di destra o sinistra) poiché rappresenta il massimo esempio della democrazia, il frutto di un sentire personale, la trasformazione del cogito in una fremente pennellata, in un getto copioso di inchiostro, in un poderoso acuto di chitarra, in una voce dissidente, in una frazione di tempo catturata da un'immagine. Qualunque sia l'arte prediletta, non appena la libertà rompe le sbarre che l'han rinchiusa, essa si tramuta in pensiero che fluisce dall'interno dell'individuo libero verso l'esterno di una società liberata. Facile che un corpo incatenato urli cosí forte il suo nuovo status affrancato da paventare il rischio, più umano che mai, di ambire ad una facile rivalsa verso coloro che hanno inibito il flusso democratico delle idee incatenandole dietro le sbarre, sotto un vestito cencioso, sotto una chioma pidocchiosa di capelli arruffati o sotto la pelle emaciata, spessa quanto carta velina, di un essere denutrito. Ricorrere ad una dialettica ampollosa e sacrale che equipari la vittima che chiede giustizia al carnefice che l'ha plasmata è un ostacolo difficile da evitare. Álvaro Brechner sceglie le immagini per raccontare il delitto perpetrato ma rifugge da ogni trabocchetto e da ogni lusinga. Non piega la propria arte, non urla proclami dilanianti e feroci di giustizia sommaria ma adotta uno sguardo più distaccato frutto della sedimentazione dei fatti nella memoria collettiva. La sabbia grigia formata da frammenti di esperienze collettive e personali è fluita lungo lo stretto e doloroso collo di una clessidra della memoria che ha lasciato agli uomini oltre trent'anni per assimilare dodici e più anni di angosce prevaricanti. Ecco che l'emotività, tipica e sacrosanta per chi è stato coinvolto in prima persona in eventi drammatici, sbiadisce di fronte all'ingranaggio del tempo lasciando il posto a quell'ironia tipicamente latina che nessuno crederebbe di trovare in un film, pur sempre, dai forti connotati politici e libertari, e che nel dramma dei sopravvissuti alle epurazioni trova terreno fertile in cui attecchire. Lo sguardo ironico assunto dal regista è l'auspicio a liberarsi dal fardello della violenza e lasciare dietro di sé la sofferenza. Ma il ricordo deve rimanere nelle coscienze per evitare il ripetersi degli errori perché il futuro è troppo spesso simile al passato. Il messaggio di Álvaro Brechner è limpido e universale e poco importa se lo spettatore che si appresta alla prima visione de "La noche de 12 anos" non conosca il "Pepe", "Ruso" e il "Nato", protagonisti del racconto. La sceneggiatura lo prenderà per mano senza virtuosismi registici, semplicemente raccontando i particolari di una lunga notte vissuta tra privazioni, difficoltà, isolamento ma anche tra piccoli gratificanti conquiste come le partite a scacchi, un mate bollente, un foglio ed una penna ove imprimere il proprio pensiero. Onore dunque al Brechner sceneggiatore senza dimenticare la scelta, se vogliamo anomala ma gradita, di alleggerire le sequenze più drammatiche (gli incontri con i familiari, il massacro alla cattura di Fernandez) con gag ridicole ed ironiche (l'impossibile "cagata" di Fernández). Per quanto mortificante sia stata la prigionia i tre uomini hanno potuto aggrapparsi al rigenerante elisir di una risata o di un sorriso scaturiti da una conversazione tessuta tamburellando le nocche su un muro sbrecciato o dall'appagamento di un'inaspettata posizione di riguardo.
Ricordando la bravura dei tre protagonisti che si sono sottoposti ad una dieta ferrea per entrare nella parte (De la Torre è identico al giovane Mujica che si vede nel documentario di Kusturica "Pepe Mujica, una vita suprema") lascio al film il compito di raccontare se stesso tramite una dialogo tra Rosencof ed il carceriere che per un periodo, tra uno spostamento e l'altro da carcere a carcere, ebbe pietà del giovane poeta e approfittò della bellezza dei suoi versi.
Nella speranza di invogliare qualcuno a recarsi nella sala più vicina non mi resta che celebrare la bellezza di questo lavoro che alla proiezione in presenza del regista e degli attori al Lido ha raccolto almeno una decina di minuti di applausi.
Il tenente: di nuovo qui Rosencof?
Ruso: la sua fidanzata?
Tenente: (mostrando la fede nuziale) Bene. Però ora mi rimprovera. Mi dice sempre "Non mi scrivi più le lettere di quando eravamo fidanzati"
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