Regia di Álvaro Brechner vedi scheda film
Ho avuto l’occasione di vedere in anteprima questa interessante pellicola diretta da Alvaro Brechner che fra pochi giorni sarà distribuita in sala ma in un numero limitatissimo di copie come succede sempre per le opere di valore che si ritiene non abbiano un sufficiente appeal per il pubblico pagante, ed è un vero peccato perché è un film importante e necessario che ci aiuta a ricordare (e prova a non farcela dimenticare) un’altra pagina buia del novecento, un secolo che di orrori ne ha visto molti (troppi). Purtroppo la storia non ci ha insegnato nulla visto che di sangue ne scorre ancora molto nel mondo, così come continuano le guerre, le sopraffazioni repressive, i giustizialismi feroci, i genocidi, le torture… E’ un vero e proprio ritorno alla barbarie scientificamente programmato che avviene nell’indifferenza generale. E il fatto più terribile e disturbante è che tutto questo non ci fa più nemmeno indignare, prendere posizione come una volta, denunciare. Non siamo più né generosi né accoglienti perché prevale l’egoismo, il mors tua vita mea, che sono ormai i sentimenti, i pensieri che vanno per la maggiore (siamo diventati insensibili persino alla sofferenza e alla morte dei bambini se questi hanno un colore differente della pelle) che dominano ormai la maggior parte del genere umano che di umano ha sempre meno. Una pellicola come questa che impietosamente ci riporta alle vicende della dittatura del Generale Bordaberry che tenne sotto il suo spietato pugno duro l’Uruguay dal 1972 ai primi anni degli ’80,.cerca per lo meno di farci fare una seria riflessione che (forse è una speranza vana) vorrebbe farci ritrovare perlo meno il senso di quella pietas ormai smarrita da troppo tempo.
In anni in cui si accusano gli autori di aver messo da parte la forza, l’indignazione e la rabbia politica del cinema più,vivo e appassionato del passato, il regista non ha paura di sporcarsi le mani è fa un passo importante in quella direzione (e non è certo una cosa da poco questa.
Passato con successo dall’ultima Mostra di Venezia (confermato dal lunghissimo, spontaneo applauso anche liberatorio che è scaturito da un pubblico molto emozionato e visivamente anche turbato al termine della proiezione dell’opera (così mi è stato raccontato l’esito di quella serata) Una notte dei 12 anni è un film che nasce dalla volontà del regista di fare i conti non solo con il passato del suo Paese, ma anche e soprattutto con la memoria delle sue ferite.
La sfida di Brechner è in questo senso interessante e necessaria, ma anche un po’ rischiosa. Trasporta infatti lo spettatore direttamente fra le anguste mura delle prigioni uruguaiane dove erano detenuti tutti i dissidenti che si opponevano al regime durante gli anni di quella spietata dittatura. Racconta cosi una stria vera, quella vissuta in prima persona da Pepe Mujica (che sarà poi presidente della nazione tornata ad essere di nuovo repubblicana, dal 2010 al 2015), Eleuterio Fernandez Huidobro (ministro della Difesa negli stessi anni e allora leader dei Tupamaros) e dal futuro giornalista e scrittore Mauricio Rosencof che furono arrestati dai golpisti nel 1973 e rilasciati solo nel 1985 al ritorno della democrazia dopo dodici anni di detenzione durissima , trascorsi per lo più in isolamento, e quindi senza poter ricevere alcuna notizia dal mondo esterno o vedere e parlare con qualcuno salvo le guardie carcerarie (con alcune di esse riuscirono a stabilire qualche flebile rapporto realizzando così: piccoli, imprevedibili spazi di umanità che, malgrado tutto e per fortuna, possono crearsi anche fra esseri umani che stanno ai lati opposti delle sbarre.
L’ossimoro del titolo riassume appunto il paradosso cronologico provato sulla propria pelle dai detenuti per questa nuova forma di subdola tortura.
La dignità umana era così completamente umiliata, schiacciata, annullata da un disagio che non era solo fisico, ma anche e soprattutto psichico, imposto da un regime che non si limitava a voler rendere inoffensive le voci del dissenso ma pretendeva addirittura il loro totale annientamento sistematico.
Era davvero facile impazzire in quelle condizioni estreme dove l’unica possibilità di mantenere la mente attiva, era affidata esclusivamente alla volontà di rimanere lucidi ad ogni costo, anche semplicemente attraverso qualche rudimentale conversazione con il vicino di cella con l’alfabeto morse (battendo cioè le dita sul muro della propria cella).
Partendo dal libro di memorie di Rosencof e Huidobro, il regista prova così a raccontare a suo modo una delle pagine più buie del paese. Lo fa mantenendo una invidiabile lucidità che gli consente di sostenere la narrazione con mano solida e ritmo calzante e senza mai cadere nella trappola della retorica.
Ciò che convince d più nel film infatti, è la capacità di raccontare nel dettaglio l’orrore della prigionia grazie a una sapiente introspezione dell’animo umano che evita inutili forzature. La chiave narrativa spinge così lo sguardo dello spettatore in una direzione cruda e spietata grazie alla sola forza delle immagini che cerca di restituire tutte le privazioni, i soprusi a cui erano sottoposti i prigionieri dentro a un clima di feroce, spasmodica tensione, ricorrendo alla potenza evocativa dei tempi morti che ben sottolineano ed evidenziano il disordine psicologico partorito dalla tortura.
La storia si basa su molteplici fattori e innumerevoli dettagli, ma quello che sicuramente sta più a cuore del regista, non è certo la voglia di produrre un asettico saggio di analisi storica anche critica. Prevale invece in lui il desiderio, la voglia di concentrarsi sulla lotta per la dignità di tre individui e celebrare così’ la resistenza caparbia dell’essere umano, la sua capacità non solo di sopravvivere, ma di riuscire a conservare (e persino arricchire rendendola più feconda) la propria umanità anche nelle peggiori condizioni di sofferenza e umiliazione è questo è certamente un pregio, ma anche un piccolo problema sia pure secondario poiché il voler limitare al minimo indispensabile la contestualizzazione socio-politica di quel particolare momento storico, potrebbe anche rendere allo spettatore che non ha alcuna nozione di quegli avvenimenti (e ce ne potrebbero essere moltissimi al giorno d’oggi) il senso ultimo di una pellicola che è come un iceberg perché anche lei (come quello) ci fa scorgere solo la punta più alta che affiora sulla superficie, ma ci fa ben comprendere che sotto esiste una massa ancora più ingombrante tutta da scoprire per le molteplici implicazioni che si porta dietro.
Non tutto è perfetto ovviamente. Personalmente ho apprezzato poco il fatto che per diradare le tinte cupe che necessariamente sono quelle che dominano la narrazione, si sia lasciato spazio a scene più distensive o un po’ paradossali (le conseguenze illogiche del rispetto letterale dei regolamenti da parte dei carcerieri per esempio), Criticabile anche l’utilizzo un po’ ruffiano della musica (l’inserimento della nuova versione di The Sound of Silence mi è sembrata troppo facile e scontata) ma sono piccole mende davvero perdonabili perché quando vengono descritte senza forzature le condizioni dei detenuti e la banalità del male che le governano, il film riprende immediatamente quota e mostra tutta la sua efficacia.
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