Regia di Javier Fesser vedi scheda film
Un classico film carino, sospeso però tra tanti versanti che lo rendono lontano dal “carino” nel senso del politically correct. Fa vedere i lati difficilmente sopportabili della disabilità, specie per chi sta attorno. Non è, nell'insieme, retorico, anche se talvolta lo è: l’affresco spesso festante e gioioso della vita quotidiana dei ragazzi disabili è eccessivamente positivo. In questo senso è un po’ commerciale. Come del resto il film è anche un po’retorico, talvolta, proprio per delle facilonerie della sceneggiatura, tesa a semplificare problemi che in realtà sono più grandi di quanto qui appaiono. A volte l’ironia di questi ragazzi con ritardo mentale è eccessiva, se rapportata alla loro reale possibilità intellettiva. Ma non va dimenticata neppure la consapevolezza, che Fesser mostra e che questi ragazzi hanno, del bullismo sofferto, per forza terribile, purtroppo.
Eppure ha una sua veridicità meravigliosa: la freschezza, la semplicità, e in ultima analisi la gioia che possono vivere i disabili, e che possono far vivere, è qualcosa di effettivamente notevole, nella sua contagiosità. Soprattutto perché ci rimanda all’affetto condiviso: commuovente, unico vero motore dell’amore della vita, per noi homo sapiens sapiens.
E l’amore è un tema, psicologicamente, ben rappresentato, con pennellate di rapporti semplici ma ben riusciti.
L’amore riuscito e quello mancato, con tutte le frustrazioni che ciò comporta. Il protagonista non vuole essere un padre per la delusione di non aver avuto un padre significativo, e si commuove quando i suoi giocatori disabili gli dicono che è bravo come un buon padre. L’amore a due, incompiuto (forse?) senza il coronamento nella genitorialità. L’affetto freddo d’una madre, così decisivo nel trasmettere poca fiducia al figlio medesimo, che alla fine, senza affetto, è cresciuto come un individualista arrogante, dato che non ha potuto puntare che su se stesso. Ma una madre che alla fine si riscatta nel modo più sorprendente.
Bello l’affresco, tipicamente spagnolo, della stranezza della vita: così ampia, imprevedibile, spesso foriera di situazioni inaspettate. Dove l’inatteso e l’indesiderato, come anche il piacevolmente sorprendente, possono fare capolino in ogni momento, purché non ci si chiuda a oltranza (e infatti la corazza narcisistica del protagonista a lungo andare non può non cedere, perché è autolesiva).
Bellissimo il finale della sconfitta: questi ragazzi sono felici perché a loro non interessava vincere, ma essere felici; ed hanno comunque fatto un'esperienza entusiasmante. Sono ancora ancorati a una visione autentica della vita, per quanto “primitiva”, problematica, sofferta. Non ancora inquinati dalla competitività e dalla falsità del capitalismo, della vita degli adulti così come viene spacciata da secoli nel nostro Occidente.
Tutti aggrappati, ognuno a suo modo, con originalità più o meno patologica, a qualcosa cui voler bene. Ma sotto questo qualcosa cui voler bene, c’è la speranza e, meglio ancora, la realtà, di qualcuno cui voler bene.
Il protagonista è talmente trasfigurato in positivo da questa esperienza che non riesce a salutare i suoi giocatori, tanto si vergogna, da arrogante qual è (quale era?), per la commozione che prova. Ma l’anziano, responsabile della scalcagnata cooperativa da loro frequentata, gli ricorda un dato di fatto, tanto fondamentale quanto splendido: «Qua hai trovato degli amici che avrai per sempre».
Il film di Fesser coniuga, in modo furbo ed efficace, esigenza di pubblico facile con profondità psicologica e umana. Apre scenari, non scontati, di comprensione sull’umano in generale attraverso il caso particolare della disabilità. Che è una eterna fondamentale chiave di lettura, quantunque non certo l’unica, della condizione umana.
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