Regia di Adam McKay vedi scheda film
Vice l'uomo nell'ombra è il primo film di questa nuova stagione cinematografica del 2019 che ho scelto di vedere sia per i suoi contenuti sia per celebrare un anniversario informale, che sarebbe la visione di un classico biopic politico americano mirante esclusivamente all'Oscar a Gennaio.
Il mio pregiudizio però è abbastanza relativo, visto che ero molto interessato al film anche per il regista Adam McKay, che è lo stesso della Grande Scommessa, un grande biopic intelligente e complesso sulla crisi finanziaria del 2007-2008.
Il film narra quindi le origini di Dick Cheney, un politico americano repubblicano che dopo numerose scalate al potere a Washington, diventa il 46° vicepresidente degli Stati Uniti d'America durante l'amministrazione di George W. Bush, una delle più controverse presidenze della storia degli Stati Uniti.
La pellicola si focalizza perciò sulla figura di questo grande burocrate della Casa Bianca, descrivendo la sua personalità fredda e spietata, e di come sia riuscito da una carica simbolica come la vicepresidenza ad acquisire poteri impensabili, tanto da segnare per sempre la Storia degli Stati Uniti e del Mondo intero.
Adam McKay per narrare e per spiegare al pubblico questa complicata figura dell'uomo nell'ombra, decide di utilizzare uno stile molto ironico quasi dissacrante nella rappresentazione del potere e della politica americana, ricercando uno stile registico ibrido tra il mockumentary e la figura del narratore onnisciente per rompere i classici cliché del genere biografico.
Un'innovazione e una ricerca stilistica che potrebbe funzionare se sapientemente utilizzata, ma che purtroppo in questo film risulta autoreferenziale, pretenziosa, esagerata, se non addirittura invadente.
La metanarrazione diventa perciò confusionaria e frammentata nel corso del film, soprattutto nella sua prima parte dove l'uso eccessivo dei flashback e dei flashforward aliena la cognizione dello spazio e del tempo dello spettatore. I dialoghi anch'essi risultano impoveriti e superficiali con la presenza didascalica del narratore fuori campo, che si sostituisce in gran parte ai personaggi e agli eventi della storia.
La linearità della trama viene perciò messa a dura prova da queste fasi di montaggio metanarrative e metacinematografiche, e non si capisce se il regista voglia effettivamente narrare la biografia di un personaggio o semplicemente farci un documentario sopra.
L'eccessivo uso di immagini e della tecnica del falso documentario pesano perciò sulla fruizione della pellicola, che si presenta con una forma ed una sostanza non perfettamente bilanciate.
Il film oltre a queste problematiche tecniche e stilistiche, vorrebbe presentarsi come una grande satira politica, ma che nella sua dissacrante ironia e nel suo didascalismo compulsivo, interrompe dialoghi importanti e l'esplicazione di eventi cruciali, come la scalata al potere di Dick Cheney e l'esplorazione del suo nucleo familiare.
Fortunatamente nella seconda parte il lungometraggio si concentra effettivamente sulla vicepresidenza di Dick Cheney, dove ci mostra tutti i suoi segreti nell'apparato esecutivo e di come sia stato un'abile "falco" (neocon) nell'agguantare il "pesce" (George W. Bush) grazie alla sua formidabile esperienza politica. La pellicola infatti, utilizza metafore allusive e divertenti nel descrivere l'inesperienza di Bush jr. e di come sia stato sfruttato dall'entourage di Cheney su numerose questioni delicate in materia di politica estera e interna.
Nonostante l'utilizzo eccessivo della metanarrazione e del didascalismo nel corso del film, nella seconda parte il suo pacing è molto più dosato, esplicando chiaramente la politica repressiva dell'amministrazione Bush, come lo sfruttamento mediatico dell'attentato alle Torri Gemelle per invadere militarmente l'Afghanistan e l'Iraq, destabilizzando il Medio Oriente seminando odio e terrore.
Gli ingranaggi del potere all'interno dell'establishment americano vengono perciò spiegati chiaramente nel corso del film, e la pellicola non ha peli sulla lingua nel rappresentare lo sfruttamento della propaganda da parte del governo per guadagnare consenso popolare, nascondendo di fatto crimini contro l'umanità e interessi collusivi concordati con le multinazionali petrolifere.
Un'altra nota favorevole al film spetta anche al grande cast da cui è composto, soprattutto Christian Bale che ha dovuto ingrassare e studiare le movenze di Dick Cheney per interpretarlo al meglio.
Sam Rockwell nella parte di Bush jr. è stato bravissimo nel rappresentare la personalità ingenua, istintiva ma soprattutto cowboyesca/texana del noto presidente, che fa da perfetto contrasto alla personalità fredda e calcolatrice di Dick Cheney.
Un ultimo appunto anche per Amy Adams nella parte di Lynne Cheney, moglie apprensiva ma risoluta che ha definito il carattere del marito, rendendolo l'uomo nell'ombra che noi tutti (non) conosciamo. Una figura femminile forte e importante, che spesso si è sostituita al marito per sostenere le sue campagne elettorali, mantenendo alto il nome della famiglia.
Un aspetto altrettanto importante, ma leggermente trascurato, è il rapporto che i due genitori Cheney hanno con le loro figlie, soprattutto sull'omosessualità di una di queste che va a scontrarsi con la tradizione repubblicana della famiglia. Il diverso approccio affettivo che hanno i due genitori nei confronti di questo tema, è determinante nel rappresentare l'umanità di questi ceti sociali alto borghesi americani, che mirano esclusivamente al successo e all'arricchimento personale.
In sostanza ci troviamo di fronte ad un biopic bipolare che vuole criticare e allo stesso tempo narrare una storia attraverso uno stile non convenzionale, ma che nella sua folle sperimentazione pseudo documentaristica non riesce a raggiungere il suo scopo ultimo, perdendosi nel corso della narrazione e lasciando lo spettatore ad un didascalismo superfluo sulla figura di Dick Cheney.
Adam McKay fallisce perciò nella sua pretenziosità nel raccontare la storia di questa controversa figura politica degli Stati Uniti, che in parte è accettabile, ma che necessita di una maggiore consapevolezza del mezzo del biopic.
Questo aspetto forse è dovuto dal fatto che nella Grande Scommessa la sua dissacrante ironia funzionava nella rappresentazione del mondo dell'economia finanziaria, e il didascalismo lì era al servizio del mezzo cinematografico, unito ovviamente da una sceneggiatura originale che gli è valso l'Oscar.
Lo stile perciò va adattato al contesto in cui si opera e purtroppo in questo caso Adam McKay ha utilizzato un linguaggio anche troppo giovanile per divertire il suo ampio pubblico, esagerando nella forma e trascurando la sostanza.
A questo punto meglio un biopic lineare e retorico come L'ora più buia del gennaio scorso, che ha dalla sua un focus maggiore per i dettagli e una trama più chiara e convincente.
Un biopic quindi pretenzioso, ma che dalla sua ha un grande cast e a tratti diverte.
Voto 7-
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