Regia di Adam McKay vedi scheda film
Richard Bruce Cheney, notto a tutti come Dick, è stato una sorta di J Edgar della Casa Bianca. Persona influentissima, capace di manovre astute compiute sempre con passo felpato e un invidiabile understatement, Dick Cheney è la prova provata che un qualsiasi ubriacone perdigiorno e arrivista, con la giusta dose di spregiudicatezza e ambizione, negli Stati Uniti può arrivare dove vuole. Per esempio, a gestire le decisioni cruciali nelle ore immediatamente successive all'attacco alle Torri Gemelle, mentre quel presidente fantoccio di George W. Bush era impegnato a leggere storielline in una scuola della Florida. Stagista già ai tempi della presidenza Nixon, costantemente dalla parte più conservatrice e illiberale dei repubblicani, Cheney fu segretario alla difesa durante l'amministrazione di Bush senior. Con l'insediamento di Clinton alla Casa Bianca, per Cheney sembrarono arrivare (letteralmente, nel film) i titoli di coda di una carriera fulminante che tuttavia non aveva ancora toccato il suo zenit. Dopo cinque anni passati a fare l'A.D. di una compagnia petrolifera, fu vicepresidente durante il doppio mandato di Bush Junior, prima di chiudere la carriera politica nel 2009, lasciandosi dietro una lunga scia di decisioni brutali: dal controllo delle mail private di ogni singolo cittadino americano alla piena legittimazione della tortura, fino all'apoteosi della guerra inventata in Iraq, che fece di Cheney uno degli artefici indiretti della nascita dell'Isis.
A raccontare la sua vicenda con voce off e qualche occasionale comparsata sullo schermo è un veterano di quella guerra (Plemons), l'uomo che a seguito di un incidente mortale fece da involontario donatore per il trapianto di cuore allo stesso multinfartuato Cheney. Quello ancora pulsante che viene inserito nella sua scatola toracica è l'unico cuore di questo film senza cuore, algido, dal ritmo lentissimo, assai più preoccupato di spiazzare lo spettatore con qualche trovata a effetto che non di denunciare, fatto salvo il frettoloso bigino finale, le nefandezze e le manipolazioni di cui Cheney - con la sua indiscutibile capacità di prendere all'amo chiunque - fu protagonista. Un film apolitico sulla politica, privo di forza accusatoria e teso soltanto a candidarsi agli Oscar grazie innanzitutto alla strepitosa operazione di trasformismo di uno straordinario Christian Bale. Una prova, la sua, pari e opposta a quella che ebbe in occasione de L'uomo senza sonno. Nè per accaparrarsi statuette avrà minor peso la definizione filologica dei caratteri di contorno, tra i quali, oltre al Rumsfeld di Steve Carell e al Bush Jr. di Sam Rockwell, spicca la figura opportunista della moglie di Cheney, impersonata da Amy Adams. Montaggio ed effetti speciali fanno pure la loro parte, ma l'impressione complessiva è che il regista Adam McKay rimanga quello di filmacci come Fratellastri a 40 anni, I poliziotti di riserva o Fotti la notizia, piuttosto che quello dello straordinario - e unico nella sua carriera - La grande scommessa. Se l'originalità a tutti i costi rimarrà il suo obiettivo per il futuro, qualcuno dovrebbe chiarirgli che quando le vai a spiegare, le metafore diventano didascalie e servono solo a banalizzare.
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