Regia di Adam McKay vedi scheda film
Un film senza cuore. Altro che gli infarti ripetuti di Dick Cheney.
In Vice vince – come già accaduto in La grande scommessa, che pure era un bel balzo in avanti rispetto alle porcherie del passato – il cinema opportunista, furbo, paraculo di Adam McKay, evidentemente autoelettosi scandagliatore/fustigatore dei morbi esiziali – dei letali peccati – della “più grande Nazione del mondo”.
Il cast, grosso, ingrossato, ingordo, c'è tutto (basta il trailer per comprendere); l'opera (liberal) di lavaggio della coscienza collettiva, pure.
Ma è solo un'altra, stupida, stolida, stitica cine-biografia. Però alla moda.
Malgrado l'iper-narrazione: tutto è spiegato, raccontato, ricamato, riciclato, rigurgitato, (ri)adattato, didascalizzato, s(petta)colarizzato.
Una maniera divulgativo-narrativa che è mera maniera.
Miniera cui attingere, come per l'altra sporca faccenda delle dannate banche, l'opera di adulterazione e ibridazione. Immagini e reperti veri, ellissi di racconto, espedienti ed espedientucoli, manovre temporali, sguardi e discorsi in camera, interruzioni da pubblicità-progresso, twist “clamorosi” che risolvono l'enigma dell'io-narrante (merce stantia, come fosse una bistecca inzuppata nel latte e infarinata per coprirne la sgradevolezza di aspetto e odore).
Come fossimo in un loop di lancio pubblicitario che invade media, medium e immediatamente pubblico e critica.
Tutto per celare la pochezza della materia.
Che dovrebbe essere l'uomo-Dick Cheney; e il suo ruolo decisivo nell'incredibilmente idiota amministrazione George W. Bush (ritratto appunto nella sua natura istupidita da un adorabile Sam Rockwell).
Ma McKay riesce solo a scalfire la superficie dell'anima del politico americano; e d'altronde la sua è una lettura superficiale (il passaggio da inetto ripreso dalla mogliettina stronza a oscuro potente del partito repubblicano sta in un paio di scenette che vorrebbero dire tanto senza in realtà dire nulla; lo stesso vale per i rapporti familiari e quelli istituzionali), a (sgraziato) mollo tra flutti aneddotici (perlopiù già noti), nuotate su wikipedia e notiziole d'asporto dai tiggì.
Una lettura dunque pretestuosa, funzionale unicamente alla messa in opera dello show, peraltro allungato di una buona ventina di minuti (di troppo).
Quello che ne emerge, alla fine, non è che un ritrattino-bignamino buono per lo studente svagato, per lo spettatore annoiato, per la plaudente platea di critici.
Per la stagione dei premi (e infatti).
Diverte pure, a tratti, eh, e indigna/”sciocca” quando deve (interessante la teoria del potere esecutivo unitario: un embrione nello script che non evolve).
Tutto come da copione.
Bravi gli attori (Bale in missione mimesi, Adams esemplare come sempre, Carell maschera ottima, Rockwell un Bush jr nato, ma ha spazio esiguo; vanno pure segnalati la sempre sottovalutata Alison Pill e Eddie Marsan). Peccato per lo spreco, per quello che vale.
In Vice (pre)vale il programmatico, paludato equilibrio/gioco tra urlati moti di indignazione, facilonerie pedestri e artifici assortiti che fanno da orpello/tono alla flaccida, tumida farsa.
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