Regia di Adam McKay vedi scheda film
Lo stile poliedrico e trasversale che avevamo già conosciuto nella precedente pellicola dell'autore rimbalza da fotografie shock a spezzoni televisivi (reali o riprodotti), dalle stanze del potere alla vita privata, dalla presupposizione alla verità.
Anche in quel grottesco e raccapricciante teatrino delle marionette chiamato politica, il pubblico vede il pupazzo, ma non il burattinaio. Ma sia chi manovra (nel caso specifico, l'infido Dick Cheney del magnifico Christian Bale) che chi è manovrato (il George Walker Bush idiota del bravissimo Sam Rockwell) è comunque un buono a nulla, solo che il primo è un po' più furbo del secondo, e non certo per meriti suoi: c'è forse un'ulteriore azione di controllo che sfugge a tutti? Ecco che con Vice il geniale regista e sceneggiatore di La grande scommessa ritenta il colpaccio e stavolta vince su tutti i fronti, dando alla luce un autentico capolavoro. Adam McKay affina, infatti, le carte vincenti della sua pellicola più encomiata, ma intanto si aggancia sempre più alla poetica di Orson Welles, destrutturando in maniera spiazzante i formalismi di racconto hollywoodiani e tornando alla purezza primigenia dell'essenza del cinema come arte: quella del racconto per immagini. Le quali, nel caso specifico, servono a chiarirci che, al di là delle solita retorica sulle storture della politica statunitense, le parole dei potenti hanno sempre degli effetti concreti e reali: l'atroce accostamento di due piedi che battono per terra in luoghi del pianeta completamente diversi parla molto di più di migliaia di saggi sulle strategie di governo. Il cast è davvero eccezionale, stavolta impegnato in difficili prove di mimesi (con Bale e Rockwell serviti da un trucco perfetto e attenti a carpire i più piccoli tic dei loro personaggi, ma anche il fantastico Steve Carell e la superba Amy Adams lasciano traccia); il sarcasmo è sempre amaro, veicolato da uno humor singolare, diretto, sapido e sempre teso all'acidità; lo stile poliedrico e trasversale che avevamo già conosciuto nella precedente pellicola dell'autore rimbalza da fotografie shock a spezzoni televisivi (reali o riprodotti), dalle stanze del potere alla vita privata, dalla presupposizione alla verità. Quasi un Quarto potere contemporaneo, che distrugge per sempre l'illusione romantica del sogno americano, che tratta persino della manipolazione dei media per generare consenso e che poi, nell'incredibile dialogo finale in macchina, ci ricorda che Cheney è un mostro manipolato da un altro mostro, che però non è la perfida moglie, ma siamo noi stessi, ovvero l'elettorato, con la sua voglia di avere sempre un pupazzo con cui sfogarsi di ciò che non va, perché in fondo tutto ciò che ha fatto Cheney l'ha fatto perché noi desideravamo che lo facesse: agghiacciante. Tra le innumerevoli genialate, i titoli di coda fasulli a metà film che spernacchiano il buonismo di certi caramellosi biopic statunitensi.
Nicholas Britell commenta musicalmente le immagini con brio e sofferta malinconia.
CAPOLAVORO — Voto: 10
VISTO al CINEMA
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