Regia di Damien Chazelle vedi scheda film
La progressiva involuzione del cinema di Damien Chazelle – che comunque grande non è realmente mai stato – è confermata dal quarto step della sua filmografia, First Man, su Neil Armstrong: drammi familiari, lezioni, missioni e dispiaceri. Vittorie. I personaggi di Chazelle, costantemente alla ricerca di un sogno da esaudire, da Whiplash in poi hanno perso sempre più qualunque briciolo di ambiguità. Se Whiplash era il sogno di un pazzo che riusciva ad esaudire le sue speranze senza smentire la sua follia, già in La La Land il mancato esaudimento del sogno voleva essere il tentativo di gettare ambiguità su un film che ambiguità di fondo non ne aveva e neanche follia, e che rileggeva, semplicisticamente, il cinema del passato. Adesso il sogno è diventato, com’era prevedibile, il Sogno Americano. Le ambiguità politico-sociali di una nazione che negli anni ’60 di ambiguità ne spruzzava a fiotti sono isolate a un paio di sequenze dal tono giustificatorio; tutto il resto è affidato alle incertezze di un protagonista sempre razionale ma mai realmente in grado di tenere tutto sotto controllo. Folle lo è poco, se non niente, non ci interessa. È ovviamente la moglie, costretta a vivere un’avventura spaziale qual è la crescita dei figli – e il tormento di una figlia morta di cancro – a farlo forse, in qualche modo, rinsavire.
Chazelle ha capito che non c’è bisogno dell’happy ending per soddisfare il pubblico; eppure i suoi film sono ormai di un’accondiscendenza narrativa esasperante. Dallo sfruttamento ossessivo-compulsivo del montaggio alternato a una camera a mano forse – si spera non ci creda davvero! – di ascendenza new-hollywoodiana, First Man sciorina immagini che non sono immagini, sequenze prive di regia, e tentativi (falliti) di depurare l’immaginario sci-fi dalle visioni fantasmagoriche più diffuse a favore di un presunto realismo di camere a mano appunto, apparente distacco e immagini sgranate, imperfette, un po’ sfocate: esempio chiaro, e che già fa urlare di gioia molti, è l'impiego di un montaggio serratissimo (spettacolare, invero!) nelle scene in cui Armstrong è a bordo degli shuttle. E aggiungiamo anche montaggi incrociati che non hanno nulla di estetico ma sono di pura, esasperante, narrazione. Questi "esperimenti", che arrivano quanto più enfatici tanto più se pensati dopo l'incellofanato La La Land, sono smentiti da una struttura biopic terribilmente pedante, regolare, segmentaria. Nonostante sembri un cinema che si identifica coi propri personaggi, in realtà è sempre un cinema del compromesso, che non rischia come faceva un American Sniper di Eastwood quattro anni fa – quello sì, sogno spietato di un folle – e pensa di sperimentare con suggestioni vecchie cent’anni, non prendendo mai una vera strada e tirando indietro la mano quando sarebbe giunto il momento di sporcarla.
La grande assente, reale obbiettivo mancato del quarto film di Damien Chazelle, ciò cui il regista anela senza successo, esagerando in logorrea narrativa e non fermandosi mai un momento se non in hurwitziane leccate di culo, è l’esperienza della visione.
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