Regia di Damien Chazelle vedi scheda film
Un astronauta introverso
È difficile che possa essere attraente un film che racconta di Neil Armstrong e del primo sbarco dell’uomo sulla Luna, avvenuto il 20 luglio 1969: se non altro perché i fatti sono noti, la trama è prevedibile, non esiste suspence e il finale non può riservare sorprese.
Se poi il film è americano, ci si aspetta il solito dispiego di mezzi e trucchi, i consueti effetti speciali, la spettacolarità hollywoodiana, la musica fracassona, i colori abbaglianti e, considerato l’argomento, l’immancabile trionfalismo patriottardo.
E invece no.
Damien Chazelle ripercorre fedelmente la cronaca nota, ma evita sia la tentazione documentaristica (il reportage), sia l’enfasi della celebrazione epica, costruendo un’opera prevalentemente intimistica.
Vengono perfino lasciati in secondo piano o solo accennati gli arcinoti scenari storici dell’epoca (l’escalation della guerra fredda, il maccartismo, la guerra del Vietnam), le tensioni sociali (i movimenti per i diritti civili, le contestazioni studentesche, l’opposizione pacifista) e la rivalità con l’Unione Sovietica (nelle alleanze politiche, nel controllo delle zone d’influenza, nelle dotazioni belliche e nella competizione per la conquista dello spazio).
Il film è fondato, coscientemente, su un paradosso per cui la storia che narra della conquista del grande spazio infinito finisce per descrivere l’esplorazione degli immensi luoghi dell’anima.
Ecco dunque che l’avventura cosmica diventa viaggio interiore; l’escursione oltre l’atmosfera è pretesto per un’esplorazione del profondo; l’impresa collettiva consente al protagonista di misurarsi con la sua solitudine.
Il vuoto fuori è metafora (o coincide) col vuoto dentro.
Per andare “oltre” è sempre necessario avere coscienza del “qui”.
La navetta viaggia fra le orbite ma è una cella cupa e claustrofobica che cigola, scricchiola e vibra paurosamente, una trappola tenuta insieme da bulloni simili a quelli delle locomotive a vapore dell’800.
Già nel racconto della fase di preparazione all’impresa, non prevale in Armstrong (interpretato da un convincente Ryan Gosling) la consapevolezza orgogliosa di essere protagonista di una grande iniziativa. Trapela certamente in lui la volontà di riuscire; e la spinta a osare è data anche dallo spirito di abnegazione, dalla caparbietà nel cercare di superare le difficoltà e non farsi scoraggiare dagli insuccessi; ma affiorano con maggior evidenza mille insicurezze e oscure malinconie, comprensibili paure e tristezze nascoste, ansie condivise e sofferenze private; e l’abbattimento per le fatiche improbe, i dubbi e gli smarrimenti, i lutti e le titubanze per i fallimenti di test precedenti.
Ad accompagnare l’introverso astronauta non è l’orgoglio patriottardo del primo conquistatore della luna, ma la paura tutta umana per il “folle volo”.
L’opera celebra certamente l’audacia di un’impresa, la cui follia è ben svelata dalla rappresentazione evidente della tecnologia antidiluviana usata nella missione (computer primitivi, monitor in bianco e nero, dispositivi per le esercitazioni simili ad attrezzi da luna-park, calcoli delle orbite fatti a penna). Ma pone maggiormente l’accento sull’angoscia che accompagna il protagonista, come a voler dimostrare che sotto la tuta di ogni eroe si nasconde comunque un uomo fragile, sempre consapevole dei propri limiti.
Per questo forse, nonostante il finale universalmente noto, il giovane regista Chazelle riesce a sollevare l’ansia, produrre tensione, creare suspense.
A rendere inquietante la visione di questo film, contribuiscono magnificamente le riprese nervose (lontanissime dalle solennità kubrickiane), le inquadrature strette, i movimenti di macchina e il montaggio convulso, i colori (vintage per le scene sul pianeta e lividi per quelle sulla luna) e la colonna sonora (inclusi i rumori).
Indimenticabile il respiro affannato degli astronauti nel silenzio cosmico all’interno della sgangherata navetta persa nella desolazione infinita sopra i deserti lunari.
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