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Un'estate d'amore

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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(spopola) 1726792

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un'estate d'amore

di (spopola) 1726792
8 stelle

Nonostante qualche pesantezza di troppo, è uno dei migliori risultati raggiunti da Bergman nella prima fase della sua carriera. Vanta al suo attivo la delicata precisione dell’indagine psicologica, la freschezza del ritmo e l’incanto figurativo di alcune sequenze memorabili come quelle delle gite in barca o quelle delle prime notti d’amore).

Con “Sommarlek” (“Un’estate d’amore”) Bergman ci racconta le intense, pur se troppo brevi (ma forse proprio per questo ancor più vigorose e straordinarie nella loro pienezza) “vicende” di un amore, quelle di una passione debordante e assoluta dal tragico epilogo, che il tempo e il ricordo dilata e amplifica, sospingendole verso l’esaltazione miticizzata di ciò che è ormai soltanto il “nostalgico rimpianto” di quanto è stato vissuto in un’estate ormai remota e irrecuperabile, piena degli slanci furiosi che l’adolescenza rende sublimi, e che il rammarico “castrante” della frustrazione porta a valutare a volte come una privazione insostenibile, che sfocia inevitabilmente in un blocco emotivo che “immobilizza” il sentimento anestetizzando la percezione, e induce, proprio per questa ragione, a riflettere con amarezza sull’amore e il suo destino. E’ al tempo stesso però anche lo struggente ritratto di una donna “di quel tempo” (il film è del 1950), una “penetrazione” emblematica dentro la sua anima fatta in due delicati (e cruciali) momenti della sua esistenza. Il primo, corrispondente appunto agli anni della “giovinezza” fuggitiva e caduca; il secondo che indaga invece sulle “divergenze” contrapposte di quell’età di mezzo che preannuncia l’incipiente incedere della maturità, punto di approdo di un percorso che la trova nella posizione “privilegiata” (ma non troppo) di una persona che si potrebbe definire per certi aspetti “pienamente realizzata” (padrona della sua vita, potremmo dire) appassionatamente attiva nel suo lavoro (e su questo versante ineccepibilmente concreta), ma al tempo stesso “schiacciata” (quasi resa schiava) dalla solitudine e dalla rimembranza malinconica di una irripetibile felicità ormai lontana e da troppo tempo irrimediabilmente smarrita. La vicenda, semplicissima, è imperniata su Maria, ballerina classica dell’opera di Stoccolma, ormai vicina al momento in cui l’età la costringerà ad abbandonare la sua professione (e quindi in un periodo di “ripensamenti” riflessivi), che si trova quasi suo malgrado (è l’improvvisa “ricezione “ di un diario – speditole da un maturo amico di famiglia - a creare il corto circuito) a “riattraversare” una storia ormai vecchia di 13 anni, quella con il fidanzato Henrik (che è poi l’autore del diario stesso), morto tragicamente in un incidente alla fine di una intensa stagione di passione. L’impatto con quelle memorie, arriverà proprio nel giorno della “disperazione sconfortata”, conseguente a una ennesima, inevitabile crisi (per come si stanno mettendo le cose) della sua squallida relazione vissuta “nel presente” con un insulso giornalista (che si sta trascinando fiaccamente, ormai priva di slanci e di partecipazione). Approfittando di una giornata libera dalle prove, Maria deciderà così di raggiungere di nuovo proprio la località sul mare dove aveva vissuto “quella storia” e “quell’amore”. Si “rianimeranno” così le immagini del passato legame affettivo (tanto intenso e partecipato) con quel suo giovane coetaneo così similare, quasi senza famiglia come lei e come lei e forse ancor di più, smarrito e bisognoso d’affetto. Riemergeranno in tutta la loro esuberanza, proprio quei due indimenticabili, “magici” mesi quando la forza irrequieta dei sensi e dei sentimenti che sembrava averli “avvolti” con un vigore che sembrava “invincibile”, furono invece brutalmente interrottali dalla “ria sorte”, gettando la donna nell’afflizione e costringendola, come estrema difesa, ad alzare una barriera fra se stessa e il mondo. Sarà ovviamente un viaggio catartico, che la porterà a riconsiderare la portata devastante del sue essere ormai senza speranza e a comprendere la necessita di uscire di nuovo dai chiusi recessi isolatori in cui si è isolata fra rapporti sbagliati e false illusioni, per riprendere a comunicare e – finalmente - imparare nuovamente cosa significa amare. Il finale sarà così “insolitamente” (per il cinema di Bergman intendo, anche se non è ovviamente un caso isolato questo, basta osservare la sua sterminata filmografia per individuare l’esistenza di analoghe tracce di sotteso ottimismo, soprattutto nella prima fase della sua carriera) aperto alla speranza: la donna proprio ricreando “l’empatico” rapporto con quella felice stagione ormai tramontata, si troverà pronta e disponibile (una decisione che riporterà pace e tranquillità) a condividere i propri ricordi con l’attuale compagno, al fine di salvare la loro relazione “barcollante”, in un ritrovato interscambio di “comprensione” e di “fiducia”. Come si potrà ben dedurre da quanto sopra esposto, il film è articolato su un lungo flashback (che non è però possibile in alcun modo separare dal resto della rappresentazione, perché è proprio da qui che prende vigore e senso), una lirica e suggestiva incursione nel “sentimento” che ha una sua felicissima freschezza di ritmo, alla quale si associa la delicata precisione dell’indagine psicologica, oltre che l’incanto figurativo di alcune straordinarie suggestioni (le gite in barca sull’immobile mare al tramonto, la casta intimità delle prime notti passate insieme…). “Un’estate d’amore” è il decimo film del regista, ma (oltre a risultare di gran lunga il più riuscito di quel periodo) è anche il primo con il quale Bergman si è sentito davvero libero di esprimersi secondo la propria personale poetica (lo ha dichiarato esplicitamente), e certamente l’opera che lo impose da subito e con prepotenza, all’attenzione internazionale di pubblico e critica “segnalandolo” come una nuova, imprescindibile “realtà” che il tempo non avrebbe smentito né sminuito, anzi!!!. Uno dei risultati più coerenti di quella fase lontana, insomma (anche se i difetti non mancano, a cominciare da lacune ingenuità nei dialoghi che il passare degli anni fanno sembrare ancor più macroscopiche, senza dimenticare una eccessiva “pesantezza” derivante dalla sottolineatura insistita dei frequenti “presagi di morte” che si trovano disseminati qua e là, proprio al fine di preannunciare e ribadire l’esistenza in agguato di quel melodrammatico, romantico destino che – come si suol dire in questi casi – è assimilabile a una bomba ad orologeria destinata a distruggere con brutale tempismo, una vita e due cuori quando meno te l’aspetti). Spèrattutto una delle più lineari e meno stratificate opere di Bergman, scarnificata cioè, da eccessive “problematiche esistenziali” ed elucubrazioni di carattere filosofico-religioso, da simbologie e simbolismi che riaffioreranno poi prepotenti in opere più metafisiche,diventando certamente un irrinunciabile valore aggiunto in quelle che rappresentano i vertici assoluti della sua arte, ma rendendo più faticosa e impervia la percezione di altre più “scompensate (o semplicemente maggiormente “astratte”) come per esempio “L’ora del lupo” o “Il silenzio”, (quest’ultimo di nuovo disponibile in dvd per Bim). Ciò però non deve far pensare a un più “generalizzato” disimpegno (non sarebbe da Bergman ovviamente). In realtà allora anche qui la materia del film non si limita – come a prima vista potrebbe apparire – a rappresentare “semplicemente” la purezza di un amore giovanile prematuramente stroncato da un destino avverso, ma si amplifica in altre direzioni, e allora l’ispirata analisi di questa “lirica” incursione nell’amore, assume il respiro (in parallelo) di una puntuale, inappuntabile, bruciante critica del costume borghese e della solitudine senza gioia alla quale sembra essere condannato l’individuo. Come al solito, impeccabile e “coerentemente” appropriato l’uso (e la resa) degli attori in campo; incomparabile l’intensa, avvolgente bellezza dei paesaggi, magistralmente esaltati dalla “magica” fotografia di Gunner Fischer che diventa un tutt’altro che secondario “valore aggiunto” per il conseguimento del positivo risultato complessivo dell’opera (insieme alla capacità evocativa della “speciale” colonna sonora felicemente infarcita di “classicissimi” pezzi che vanno da Chopin a Tcajkovskij, che contrappunta ed esalta con appropriata pregnanza, non solo l’atmosfera generale dell’opera, ma anche e soprattutto i passaggi della progressione evolutiva del racconto).

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