Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
La distanza tra Dio e gli uomini estende, verso il Cielo, la distanza che separa gli uomini sulla Terra. La solitudine e la mancanza di fede sono condizioni accomunate dallo stesso dramma: l’assenza di un altro essere su cui misurare la grandezza della propria anima e l’importanza della nostra vita. Senza punti di riferimento, il tutto e il nulla vengono a coincidere, esistere o dissolversi diventano le due facce della stessa insensata realtà. Non amare significa, allora, essere totalmente “liberi”, perché ci solleva dal dovere di giudicare e dall’obbligo di scegliere. Nel vuoto possiamo specchiarci solo nella proiezione dei nostri desideri, che vengono così a formare la nostra divinità personalizzata, la cui unica funzione è rassicurare il nostro ego, oppure, al contrario, decretarne l’assoluta vacuità. Ciò che vive esclusivamente in una dimensione individuale non si lascia influenzare dagli umori del mondo: nella sua evanescenza, non si scontra con la pietra d’inciampo della concretezza, che potrebbe essere un utile segnavia nei momenti incerti. L’atmosfera che gli è più congeniale è il freddo grigiore di un gelido inverno, in cui la luce non illumina e non riscalda, bensì conferma ognuno nel proprio nichilismo. Il calore umano non si diffonde attraverso l’aria carica di neve, e il messaggio dell’altro, l’invito a uscire dall’isolamento, non giunge a destinazione. Allora, avere perso tutto equivale a non cercare più niente: né un compagno, né un aiuto, e nemmeno un perché. In Luci d’inverno, la vicenda del pastore luterano Tomas Ericsson fa risuonare, nella sterile ripetitività dei gesti quotidiani e nella vacua ritualità di una religiosità puramente esteriore, il disperato senso di abbandono che colse Gesù Cristo sulla croce: il Dubbio supremo che si spense in un grido, lasciando gli uomini immersi nel silenzio e nel buio della morte perenne.
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