Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Non so esattamente dire perché, ma questo film, che a mio parere rappresenta la vetta filosofica, anche se non artistica di Bergman (di cui continuo a preferire altre opere, quali "Il settimo sigillo", "Il posto delle fragole" e "Fanny e Alexander") mi ricorda, narrativamente, Kafka, e in particolare uno dei suoi racconti più riusciti, cioè "Un medico di campagna". Tema del film sono il silenzio e l'abbandono di Dio, che lasciano l'uomo nella più profonda solitudine, come dimostra il racconto finale del sacrestano, che parla della solitudine più estrema, quella di Gesù, abbandonato dai suoi discepoli (con i quali aveva condiviso tutto per tre anni) nel Getsèmani e poi addirittura dal suo stesso Padre sulla croce: ricorre più volte, in questo film, l'invocazione evangelica "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Quella del pastore, infatti, è una vera e propria via crucis (del resto il cinema di Bergman racconta spesso il cammino dell'uomo verso la fede, raramente la sua conquista), costellata da una carenza d'amore che ne provoca le cadute, come avvenne a Gesù sulla via del Golgota. Volendo essere fiscali, anche qui il pastore Tomas cade tre volte: la prima volta respinge il sacrestano che gli vuole parlare, la seconda volta affronta con sufficienza i tormenti atomici del pescatore Persson, che di lì a poco si suicida e infine respinge l'amore di una delle poche persone che glielo offre disinteressatamente, cioè la maestra Marta Lundberg. Alla fine del cammino il protagonista non deve bere l'amaro calice forse oggi all'uomo è negato perfino l'estremo sacrificio?), perché lo spettacolo deve continuare: si accendono le luci elettriche e ricomincia un'altra messa, un'altra recita, la vita. Tutto il resto avviene negli spazi tra una rappresentazione e l'altra. Parlando apertamente di un uomo di Dio di scarsa vocazione (semicoperto dal rumore del treno, Tomas dichiara "i miei genitori hanno voluto che diventassi prete"), la metafora, qui, è più scoperta che altrove, ma è condotta da un Maestro e da due interpreti di grandissimo spessore, come Gunnar Björnstrand e Ingrid Thulin (quest'ultima riesce incredibilmente a rendersi brutta e goffa). Sono indeciso se dichiarare "Luci d'inverno" capolavoro, ma di certo è uno dei film più importanti di Bergman.
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