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Il volto

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Il volto

di (spopola) 1726792
8 stelle

Dramma psicologico sulla condizione dell'uomo di spettacolo di fronte ai grandi inquisitori dell'ordine costituito, è un’ulteriore pellicola che conferma la solitudine ontologica assunta dal regista a tema fondamentale del suo percorso artistico che ci invita a riflettere sui labili confini che separano la vita dalla morte.

Sognavo sempre un coltello.

Una lama per mettere allo scoperto le mie viscere.

Per tagliare fuori il cuore e il cervello.

Per liberarmi di quanto contengo.

Per asportare la lingua e il sesso.

Una lama tagliente per eliminare tutte le impurità

Dopo, da quella carcassa senza senso,

sorgerebbe quello che chiamano lo spirito

 

Il volto, uno dei titoli più autobiografici del regista che riflette sulla sua stessa condizione di uomo di spettacolo, di illusionista, di manipolatore  della realtà che privilegia un’altra  più arcana  e personale visione delle cose, può apparire anche, in prima battuta, come un semplice gioco più che intellettuale, un po’ intellettualistico (stando alle dichiarazioni di Begman, soprattutto l’occasione per risolvere un momento crisi e di conflitto: Non ero in buoni rapporti con alcuni critici, avevo avuto delle difficoltà con il mio produttore, il mio teatro, e inoltre, la mia situazione economica non era precisamente delle migliori. Avevo allora trovato divertente, come in una specie di gioco simbolico con me stesso, mettere in ridicolo questa situazione tanto complicata proprio attraverso la realizzazione di quest’opera). Ma è davvero possibile schematizzare così semplicisticamente le cose a fronte di un lavoro tanto articolato e composito come questo, che mette in scena la contrapposizione fra il volto e la maschera, o meglio ancora tra l’essere e l’apparire, se non addirittura fra i differenti aspetti di un’unica personalità, poiché alcuni dei personaggi rappresentano due facce di una stessa medaglia, come per esempio Manda, moglie e al tempo stesso solerte “ragazzo aiutante di scena”, o ancor meglio Vogler, muto e altero da un lato, ciarliero e umile dall’altro,  o si riflettono addirittura l'uno nell'altro?

E’ comunque e certamente un’ulteriore pellicola che conferma la solitudine ontologica assunta dal regista a tema fondamentale del suo percorso artistico: se l’apparenza è venata a tratti di una particolarissima carica grottesca dai toni a volte quasi  da commedia, il suo incedere è in effetti inquietante non meno delle altre sue opere del periodo, e gravido di ambiguità, corposamente ricco di  interrogativi  con quel suo continuo riflettere sui labili confini che separano la vita dalla morte sui quali sembra volerci invitare a soffermarci a meditare.

Chi sono e cosa rappresentano davvero Vogler e la moglie Manda?

E il dottor Vergerus, la nonna, il commissario di polizia e tutti gli altri, compreso il ricco Egerman?

Perché la vicenda è piena di storie e situazioni, oltre che di  una miriade di personaggi  lievitati a dismisura anche in corso d’opera (stando ancora alle dichiarazioni dell’autore, gli attori del teatro di Malmö entrarono in forte competizione personale e fecero a gara per accaparrarsi una parte, tanto che Bergman per non  scontentare nessuno, fu costretto ad inventare più personaggi del previsto affinché tutti potessero avere il loro spazio) che rischiano di farci un po’ smarrire nel dedalo intricato dei rapporti e  che sembrano voler acquisire paradossalmente più il senso di  figure emblematiche quasi senza tempo, che di  personaggi strettamente legati a un preciso momento storico che si identifica con quello dei fatti narrati (che è  fondamentale però). Sappiamo infatti che la vicenda  si svolge intorno al 1840, e che ci collochiamo di conseguenza in un periodo di particolare rilevanza anche per le articolate tematiche fra positivismo e soprannaturale che si mescolano e si intrecciano fra loro, come appunto accadde proprio nei primi anni dell’ottocento (se ne riconoscono i tratti caratteristici e le linee generali  nel progressivo affermarsi delle scienze storiche ed esatte, e dell’orientamento scientifico del pensiero che lentamente tenta di prendere il sopravvento sull’onirismo magico, il mistero e il soprannaturale, e che si estrinseca poi nella battaglia mai completamente terminata fra razionalismo e irrazionalismo):  è da poco morto Franz Anton Mesmer (medico tedesco che sostenne l’influenza fisiologica dei pianeti e l’esistenza di un fluido sottile diffuso nell’universo, che pensava  di poter sostituire nella cura delle malattie, con la forza innata del magnetizzatore, trasferita mediante contatto o con la sola concentrazione della volontà)  e solo qualche anno più tardi Kierkegaard pubblicherà la sua prima opera filosofica e il Concetto dell’angoscia (cioè il problema dell’angoscia come modo di essere dell’esistenza singola, che rimanda anche a Hauser e alle sue teorizzazione sull’isolamento cosciente della solitudine, che può avvilirsi sino al sentimento del completo abbandono da parte di Dio e del mondo, o elevarsi, nell’istante dell’orgoglio, che spesso è quello della massima disperazione, all’idea del superuomo che nell’aria rarefatta delle altezze si sente solo e infelice come l’esteta nella sua torre d’avorio).  Non sono riferimenti casuali questi, poiché tra le tante ambiguità che presenta Il volto,  i rimandi più certi che si rilevano e si avvertono potenti, portano inevitabilmente a Kierkegaard e soprattutto a Mesmer, perché proprio di questo medico che anticipò, pur nell’errore, le future ricerche dell’ipnosi e del medianismo sull’attività marginale e paranormale della psiche umana, Vogler (personaggio chiave e fortemente drammatizzato del film) più che un seguace e un adepto, ne rappresenta un epigono fallito. Possiede infatti solo  alcune facoltà di suggestione  che utilizza nei suoi esperimenti ipnotici (per chi tenti di addentrarsi nel mistero, il gioco può diventare incubo e la ricerca nevrosi, come ha osservato Alberto Pesce) ma più che un fantasioso guaritore, può essere considerato un mago ciarlatano costretto a mascherarsi per sfuggire  alla polizia che lo sta ricercando, e a far travestire da uomo la moglie che lo assiste nelle sue imprese.

E Bergman  caricando di forte e ambigua enigmaticità comportamentale l’illusionista “mesmerista”, utilizza il racconto proprio per tenere alto l’interesse dello spettatore sulla tematica prioritaria dei rapporti fra scienza e fede, tra illusione e verità, e conseguentemente quindi anche fra medico e  stregone o anche, come ha scritto Trasatti,  tra l’io e l’altro  (e non è un caso che il terrore di Vergerus raggiunga l’acme  proprio nel momento in cui uno specchio gli riflette per un attimo il volto dell’altro accanto al suo prima di frantumarsi in mille pezzi).

Dramma psicologico sulla condizione dell'uomo di spettacolo di fronte ai rappresentanti dell'ordine costituito, oltre che sul grande potere della "finzione", riportandolo a Bergman e al suo vissuto del momento, può essere anche letto come un'opera dialetticamente corrosiva  verso le presuzioni giudicanti di un pensiero critico imperante. Non si può decifrare un artista, dissezionando la sua opera - sembra voler lasciar intendere il regista - come nel passato si faceva con l'illusionismo e la magia usando l'arma del pregiudizio, utilizzando elementi più o meno  razionalistici  e reprimendo le proprie passioni (e a tener conto delle reazioni contrastanti e dure quasi offese che suscitò  anche a Venezia nel 1959 dove si aggiudicò un sofferto e dibattuto premio speciale della giuria, ma semplicemente "per la sua raffinatezza formale", che potrei definire a sua volta "ambiguo" compromesso, si può dire che in questa prospettiva il bersaglio di Bergman contro la critica, non solo è stato centrato, ma anche perfettamente recepito dai destinatari).

Lo stile narrativo che procede per intrecci e giustapposizioni, è dunque come si è visto, variegato con frequenti alternanze di ironiche parentesi  che si innervano  sul tessuto dominante più cupo e denso di mistero e pieno di simboli, trucchi visivi e continui colpi di scena con uno stile che Rondolino definì espressionistico a forti tinte, e una tensione che non si allenta mai. Si incastrano così fra loro  tutta una serie di storie e storielline d’amore che si alternano al confronto dirompente  dello scienziato con l’illusionista, che rappresenta il nocciolo centrale del discorso.

Difficile, anzi impossibile cercare di spiegare (o anche semplicemente di chiarire) gli innumerevoli riferimenti simbolici e le altrettanto copiose allegorie  che impregnano situazioni e personaggi (soprattutto questi ultimi, tanto essi risultano - come si è visto - non solo ambigui, ma anche poliedrici e contraddittori e non certamente in senso dialettico).  Se ad esempio il mutismo che si è imposto Vogler  potrebbe trovare una plausibile giustificazione nell’economia dell’intreccio (essendo in pratica  preparatorio al colpo di scena finale) tale mutismo esprime anche e al tempo stesso, una vera e propria “impossibilità a parlare” (non è un paradosso) che raggiunge il suo apice quando, davanti alla moglie del ricco mercante che in lui vede quasi un messia, egli si graffia a sangue la mano senza riuscire a pronunciare alcuna parola, o quando batte la testa contro la porta schiacciato dalla sua evidente impotenza morale che gli impedisce di contrapporsi al vero medico che tenta di sedurre Manda.

Si ritrovano comunque tutti i motivi cari a Bergman, come i rapporti fra i due sessi  e le fondamentali domande che sempre si è posto il regista sulla vita e sulle realtà spirituali (esistenza di Dio compresa): anche se questa volta non è di scena la religione ma la magia,  il confronto in ultima analisi è sempre e solo fra il visibile e l’invisibile, fra la fede e l’agnosticità, e tale rimane, irrisolto e problematico.

Ne Il volto dunque, la dissoluzione del mondo si sovrappone alla dissoluzione dell’uomo, fino a fare diventare le due cose una sola evidenza, e se questa volta tutte (o quasi) le situazioni vanno verso il lieto fine (anche se in vario modo e in maniera spesso “singolare”), rimane evidente e prioritaria su ogni altra cosa, proprio la solitudine ontologica della condizione umana:  Vogler (alla barba del lieto fine apparente) rimane solo nella sua angoscia che è anche (come potrebbe essere altrimenti?) esistenziale,  incompreso e incomprensibile persino alla sua stessa moglie che pure ama; e nemmeno Vergerus, per quanto orgoglioso della sua vittoria – vittoria della scienza, della ragione – risulta essere in ultima analisi meno solo. Se una comunicabilità più positiva esiste, va allora circoscritta fra gli altri componenti della variegata compagnia che abbiamo conosciuto nel percorso, ma si manifesta soltanto su un piano meramente fisiologico (o meglio erotico), vedi per esempio i filtri d’amore preparati dalla falsa strega nonna di Vogler che sono acquistati non perchè ritenuti efficaci, ma solo e soltanto perchè si vuol fare  assumere loro il ruolo di pretesti causali per le ambite unioni carnali che altrimenti la “ragione” renderebbe inopportune, e che invece così possono trovare libero sfogo.

Non rimane dunque che irridere a queste false vittorie (e immaginare appunto che il lieto fine è solo apparente, una pura e semplice convenzionalità, così come sottolinea  egregiamente  la marcetta finale del film con il suo volgere il dramma in operetta) e concludere che in fondo si tratta di una "scommessa" pienamente riuscita e vinta, quella di dimostrare la capacità illusionistica del cinema.

Inutile soffermarsi a lodare la straordinaria capacità interpretativa degli attori, molti dei quali formidabili e abituali collaboratori del regista e con i quali c’è davvero un’intesa perfetta.

Straordinaria anche la veste figurativa: la fotografia, molto contrastata e quasi sfuggente, con quella sua patina di surreale oniricità quasi terrorifica amplificata da quei volti che improvvisi emergono dal buio, testimonianza evidente di  una esasperata e suggestiva  ricerca formale comunque sempre al servizio della inquietante fluidità narrativa, è di Gunnar Fisher. Gli ambienti fiocamente illuminati e le inquadrature spesso riprese dal basso che aumentano la drammaticità dell’impatto,  fanno il resto.

 

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