Regia di Robert Zemeckis vedi scheda film
Ogni sotterfugio è buono per scappare dall’asfissiante grigiore che ammanta il sistema sociale e isolarsi in un rifugio. Uno spicchio di esistenza governato da regole plasmabili dalla propria volontà, senza doverne rendere conto a nessuno, che consenta di approcciare insicurezze e paure evitando scontri frontali con la realtà e gli eventuali tracolli verticali a essi correlati. Un allontanamento volontario e inderogabile che, soprattutto a valle di esperienze traumatizzanti, conferisce al tempo l’incarico di portare consiglio, consentendo alle ferite di rimarginarsi senza sottostare alle pressioni esterne, che pretenderebbero di stabilire periodi precisi, allineandosi al frenetico ritmo di ogni giorno.
È così che in Benvenuti a Marwen, Robert Zemeckis ricorre a consistenti dosi di fantasia e sensibilità per officiare il processo di elaborazione di un vissuto doloroso, con un aperto confronto sull’identità, di come sia giusto, per quanto tutt’altro che semplice, rimanere se stessi anche quando delle stravaganze diventano oggetto di derisione, sopraffazione e violenza.
In seguito a uno scioccante pestaggio, Mark Hogancamp (Steve Carell) non è più lo stesso e trova conforto solo concentrandosi su Marwen, una ricostruzione che lui stesso ha imbastito nel giardino di casa, realizzata riproducendo meticolosamente un piccolo borgo ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, abitato da donne associate alla sua esperienza personale e nazisti che seminano il panico senza trovare nessuno in grado di eliminarli definitivamente, nemmeno Capitan Hogie, un soldato americano.
Nel frattempo, il processo ai suoi aggressori è agli sgoccioli e la sua amica Roberta (Merritt Wever) tenta di rincuorarlo, ma sarà la nuova vicina Nicol (Leslie Mann) a incoraggiarlo, seppur indirettamente, fino a spingerlo ad affrontare una volta per tutte la malefica Deja (Diane Kruger), la creatura di Marwen che più di ogni altra gli mette i bastoni tra le ruote.
Negli anni duemila, Robert Zemeckis ha trascorso il primo decennio immerso nella fantasia e nello studio della motion capture (Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol), per poi tornare con costanza nel mondo reale (Flight e The walk) o in sue versioni manipolate (Allied – Un’ombra nascosta).
Con Benvenuti a Marwen – vicenda esportata da un’autobiografia - porta a compimento il matrimonio tra questi scenari, alternandoli sul medesimo campo d’azione per costituire un accidentato viatico di guarigione.
Per questo, a prevalere è la parte più intima, riempita da un corollario psicologico affollato di piccoli e grandi incontri, una malinconia diffusa e barlumi improvvisi di speranza, sussulti battaglieri e frettolosi ritiri con la coda tra le gambe.
Un contenitore appassionato e discontinuo, innanzitutto nella gestione di una doppia dimensione, con numerose combinazioni di estrema fluidità e alcuni segmenti interlocutori (genericamente riscontrabili quando una delle due fasi è eccessivamente prolungata), un’opera che accetta di essere minuta pur disponendo di fulminei soprassalti, scaturiti da sparatorie e moduli bizzarri, rimpinguata dalla memoria degli anni d’oro del regista. Così, il protagonista ricorda vagamente Forrest Gump, in un mix tra diversità cromosomica e l’amaro lascito della violenza subita, mentre Ritorno al futuro ha addirittura una citazione che più scoperta non si può.
Questo intreccio, instabile nello svolgimento, amabile nella sua ingenua onestà e talvolta flemmatico, vede nuovamente Steve Carell in versione impegnata, sempre più propenso a indossare maschere lacerate da un dolore ingestibile (vedi anche Last flag flying), mentre Leslie Mann irrompe in versione sitcom old style, accentuando ogni espressione con una luminosità celestiale, e Merritt Wever rammenta quanto la bellezza sia il primo aspetto ad andare a bersaglio ma infine non il canone da anteporre.
Rimanendo in quota rosa, Robert Zemeckis dona alle donne il ruolo di salvatrici del mondo, protagoniste della fittizia battaglia contro il male, a sua volta rappresentato dai nazisti, per eliminare l’inceppamento nella testa del protagonista, equilibrando così l’importanza dei frangenti.
In conclusione, Benvenuti a Marwen ha una matrice curiosa, è avvitato su se stesso e intrepido nel dissezionare la fragilità umana, senza possedere un precisato pubblico di riferimento (da qui, il cocente flop al botteghino), scostante per epidermide e stimolante per come utilizza la forma artistica in funzione di riparo salvifico.
Un cuore di cioccolata fondente, avvolto da sostanze che non vanno costantemente d’amore e d’accordo.
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