Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Dio è un ragno viscido dallo sguardo ripugnante e gelido, che tenta di impossessarsi di noi; Dio è amore e la fede è l'unica ragione possibile per cui siamo qui (o per lo meno per non abbandonarci all'isteria come Karin). In mezzo a questi due poli estremi c'è Ingmar Bergman, qui prossimo al capolavoro sul tema del 'silenzio di Dio' (lo realizzerà con il successivo - 1963 - Luci d'inverno). Quello di Karin è chiaramente il metaforico dramma dell'esistenza umana, vessata dai dubbi e debilitata dalle angosce, che tenta con disperazione di aggrapparsi alla ragione, ma dalla quale purtroppo non può essere in alcun modo confortata. Cast fido e solidissimo, bianco e nero che diminuisce ulteriormente le distanze fra realtà concreta e percezione onirica, mentale, subliminale di essa, un finale che apre alla speranza dopo aver demolito ogni certezza, meticolosamente, per un'ora e mezza: ma il vero dubbio comincia ora, alla conclusione del film. Un Bergman mostruoso e chirurgico.
Su un isolotto arriva una ragazza, appena dimessa dall'ospedale psichiatrico ed ancora in preda ad allucinazioni e deliri a sfondo religioso, circondata dal fratello (con cui ha un rapporto di confidenza ed affettuoso, che lui ricambia con slancio decisamente fisico), dal marito medico (con cui è in crisi a causa di eterne incomprensioni) e dal padre, uno scrittore costantemente assorbito dal suo lavoro e distante dai figli più per paura delle proprie responsabilità che per disinteresse verso di loro.
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