Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Paolo Virzì prende a prestito il ritornello tratto dal brano di Giorgio Moroder "Un'estate italiana" ma il suo ultimo film, nonostante le premesse, non si occupa di calcio, se non marginalmente. I mondiali rimangono sullo sfondo e di tanto in tanto ci ricordano come il pallone, capace di mandare in trance gli italiani, sia l'oppio del nostro popolo al pari della religione che il regista, ostenta nelle innumerevoli processioni di preti e suore, a mani giunte, tra le vie di Roma. Ivi è ambientato il racconto, tra il giugno e il luglio del 1990. Inizia col primo calcio mondiale e finisce col rigore sbagliato da Aldo Serena, che non farà certo la fila per rivedere il suo giovane avatar sbagliare il penalty che decretò la fine del sogno azzurro, ma non del film che, anzi, inizia dalla fine, col più classico dei flashback, rammentando ai tifosi attempati il risultato della gara fino ai titoli di coda. Amanti del calcio, ancora avviliti per quella semifinale dispettosa, astenetevi, dunque, perché, nonostante gli anni passati, le recriminazioni e i dolori sembrano difficili da lenire, come testimoniano le lacrime di bambino del caro Marcello Mastroianni che ancora piange la fine dell'amore con Deneuve o, forse, la fine dell'epoca d'oro del cinema italiano.
Il film è un "j'accuse" nei confronti mondo della celluloide che da tempo ha perso il suo smalto, ingabbiato nel perimetro di un tubo catodico, altro oppio della penisola, che trasmette partite e sceneggiati, più adatti a placare la fame di panem et circenses dell'homo italicus, di quanto non siano in grado sale e pellicole. Il cinema nostrano è sofferente e ottuagenario come i personaggi che Virzì inserisce in un cenobio cinematografico tra un bucatino ed un abbacchio nelle trattorie di Trastevere. Un cinema fossile che non sa (non vuole) rinnovarsi e preferisce crogiolarsi nel ricordo dei tempi andati quando erano i nostri registi ed i loro scrittori a dettare "le regole del gioco". A Roma non circolano le idee, i giovani sono incatenati, come galeotti, alle macchine da scrivere di una vecchia gloria della scrittura, che ora lavora per la televisione. Le giovani promesse sono latitanti al pari di certi produttori in bancarotta e di taluni registi militanti condannati a marcire nei sottoscala.
Antonino e Luciano, finalisti di un premio cinematografico, giunti a Roma per la serata di gala alla quale presenziano insieme alla romana Eugenia, anche lei finalista, hanno talento ma poca esperienza. I tre ingenui scrittori sono pane fresco per un corpo denutrito e finiscono inghiottiti da uno stomaco vorace nel quale vengono attaccati dai villi più famelici: il produttore Leandro Saponaro, lo sceneggiatore Fulvio Zappellini con la sua Avvocatessa, la star francese Jean-Claude Bernard, ai quali aggiungerei una sottoselva di altri raccomandati, papponi, lecchini, ex attori e vecchie glorie in naftalina. Il giallo? È solo un pretesto per rappresentare un mondo in sfacelo e per redarguire gli sceneggiatori che peccano di fantasia e non scendono a compromessi col pubblico, di fatto, allontanandolo dai cinema. C'è qualche cliché di troppo nella caratterizzazione dei tre giovani protagonisti e la tendenza alla caricatura non viene supportata da uno stile registico che vada nella medesima direzione. Anzi, l'ironia è fugace e non così tagliente com'era lecito attendersi. È ironico, invece, che sia proprio la storia a peccare maggiormente visto che il film si scaglia contro gli sceneggiatori di quell'epoca. La prima parte del film è piuttosto fumosa, i dialoghi entrano da un orecchio ed escono dall'altro insieme ai vari nomi: Mario, Ettore, Suso. Si rimane storditi dai tanti nomi (ma pochi cognomi) che risultano famigliari a chi ha più di qualche primavera ma si fa fatica a metabolizzare ciò che realmente succede attorno ai ragazzi. L'ambiente descritto è un po' straneante per cui il regista livornese si adegua allo scenario da rappresentare causando, tuttavia, qualche grattacapo nel seguire la storia. A mio avviso non ci resterà a lungo il ricordo dei giovani protagonisti. Mi duole dirlo ma non siamo di fronte alla contessa Beatrice Morandini Valdirana e nemmeno agli eccentrici coniugi americani "Ella & John" sulle cui caratterizzazioni il regista ha fatto le proprie recenti fortune. Dove, invece, il film funziona bene è negli omaggi più o meno ironici e più o meno velati a coloro che hanno fatto la storia della nostra passione: il produttore Saponaro e la sua amante sciocchina e svelata strizzano l'occhio alla coppia Cecchi Gori/Marini mentre il vecchio maestro dell'incomunicabilità che cena sempre solo, prima di trovare in una giovanissima popolana la sua amante, fa rivivere il ricordo del grande Michelangelo Antonioni. Veri sono gli omaggi a Federico Fellini e Roberto Benigni ritratti sul set de "La voce della luna". Del maestro Florestano Vancini viene mostrata la locandina del film "La lunga notte del '43" nell'ufficio dello sceneggiatore Fulvio Zappellini (un divertentissimo Roberto Herlitzka). La scena cult è affidata alla divina Federica che alza la gonna rossa davanti al giovane e bavoso Luciano (alter ego del regista livornese). Trasgressiva ed ironica fin dal nome di scena: la grande Ornella Muti.
Charlie Chaplin Cinemas - Arzignano (VI)
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