Regia di Sylvia Chang vedi scheda film
Far East Film Festival 20 – Udine.
La ragionevolezza è una qualità caratteriale in via d’estinzione. Di fatto, le esperienze di vita, soprattutto se originate da eventi traumatici, rendono difficoltosa l’instaurazione di un canale di dialogo, parlarsi – almeno facendolo seriamente – comporta un sacrificio e la ricerca di una mediazione tra due parti in combutta è un’azione impervia, che spesso sopraggiunge solo dopo essersi pericolosamente avvicinati al punto di rottura.
Proprio quando la corda è stata tirata all’inverosimile, può accendersi una metaforica lampadina. L’ultima occasione a disposizione per evitare la distruzione definitiva di un legame.
Dopo la morte di sua madre, Qiu Huiying (Sylvia Chang) decide che è arrivato il momento di spostare la tomba del padre dalla sua città natale. Questa ferrea volontà deve però scontrarsi con quella che fu la prima moglie dell’uomo, intenzionata a intraprendere qualsiasi iniziativa pur di scongiurare lo spostamento della bara.
Mentre la burocrazia statale ci mette del suo, anche la giovane Weiwei (Yueting Lang) aumenta le preoccupazioni di sua madre Qiu: stanca delle continue tensioni casalinghe, ha deciso che è ora di andare a vivere con il suo ragazzo, un affascinante musicista di cui non ha mai fatto cenno ai suoi genitori.
Love education, plurinominato e premiato in svariate manifestazioni asiatiche - Sylvia Chang migliore attrice agli Asian awards e vincitrice per la migliore sceneggiatura agli Hong Kong film awards e ai China awards -, più dell’educazione amorosa evocata a chiare nel lettere nel titolo (malizia commerciale?), traccia una parabola sull’apprendimento di quelle regole non scritte che dovrebbero caratterizzare la vita, al fine di consentirne un diffuso e condiviso godimento.
Detto del principale elemento del dispositivo, Love education si ramifica raccogliendo al su interno numerosi personaggi, depositandosi a turno sugli stessi, come un’ape che transita da un fiore all’altro con instancabile abnegazione. Si tratta d’individui che - a vario titolo - costituiscono nuclei familiari distinti e non sempre legalmente riconosciuti, ma compenetranti, utilizzando come casus belli il destino di una bara, contesa con esasperata ostinazione dalle parti in causa.
Una spaziatura che oltre alla solitudine causata dal peso degli anni e da quell’inequivocabile sensazione di essere il prossimo nome sulla lista di avvicinamento al trapasso, tira in ballo l’apparato burocratico cinese, un sistema rigido e insensibile, dal quale è terribilmente spossante ottenere un supporto, ma anche solo generiche informazioni sul passato di un cittadino.
Dunque, Sylvia Chang, autentica star del cinema cinese (dalle nostre parti è stata recentemente avvistata in Al di là delle montagne, ma può vantare una carriera di lungo corso e parecchie illustre collaborazioni, ad esempio con Tsui Hark ed Edward Yang), coltiva parecchi spunti ma, per quanto indubbiamente sentite, troppe istanze aperte assumono dimensioni di lana caprina e lo stesso nodo del contendere è sciolto attraverso una soluzione di dubbio lignaggio.
Il risultato finale è il frutto consequenziale di uno sviluppo combattuto e irrisolto, che osserva la clessidra del ciclo vitale tra chi invecchia (la madre) e chi semplicemente cresce (la figlia), smarrendosi in troppe diramazioni, con una fotografia pulita, pure troppo per rientrare a pieno regime nei ranghi del cinema d’autore, un’ambizione coltivata al pari dello sviluppo di un vivace dibattito con il pubblico.
Godibile e articolato, ma anche poco appariscente e incisivo.
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