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The Scythian Lamb

Regia di Daihachi Yoshida vedi scheda film

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La recensione su The Scythian Lamb

di supadany
8 stelle

Far East Film Festival 20 – Udine.

Quando il cinema americano affronta – e lo fa di frequente - tematiche distopiche, ha la tendenza a tratteggiare scenari troppo lontani dalla realtà per inquietare veramente (Hunger games, Divergent), preferendo non scuotere gli animi quanto potrebbe, per arrivare a inneggiare alla vittoria della giustizia, che tanto piace, per quanto accomodata a puntino.

In realtà, viviamo in una società che non abbisogna di inventarsi soluzioni fantasiose per proporre scenari tali da far tremare i polsi. Così, rimanendo ancorato a una semplice - per quanto cruciale - variazione del nostro vivere quotidiano, nasce The scythian lamb.

Nel piccolo centro di Uobuka, il giovane impiegato comunale Hajime Tsukisue (Ryo Nishikido) riceve l’incarico di introdurre nella comunità sei ex pericolosi galeotti, seguendo la linea guida dettata dall’alto, che mira a svuotare le carceri e ripopolare aree periferiche.

Di primo acchito, tutto sembra andare per il meglio, ma degli eventi - insoliti per un paese usualmente sonnolento - fanno venire dei dubbi a Tsukisue. In concomitanza con una manifestazione che festeggia il mito locale di Nororo, la situazione imploderà definitivamente.

 

scena

The Scythian Lamb (2017): scena

 

Trovare una soluzione, un armistizio che ponga domande sulla bocca di tutti, tale da indurre anche lo spettatore medio a riflettere, e dettare linee tematiche che traghettino fuori da lidi precostituiti chi cerca input più elaborati, non è utopico.

Con assoluta indipendenza da canali precollaudati, Daihachi Yoshida descrive una parabola che si basa su uno spunto socialmente inaccettabile - e giustappunto celato nella finzione – per officiare una vicenda che sarebbe classicamente riconducibile al vecchio detto per cui l’abito non fa il monaco.

Un detto che The scythian lamb avvalora, perché se una regola scritta non può essere accettata come veritiera, a forza di abbaiare all’albero sbagliato, prima o poi becchi quello giusto.

Fortunatamente siamo in Giappone e non in Italia, per cui si lavora di fino. Innanzitutto, è instaurato un senso della misura che diventa fin da subito autentica cifra stilistica. Il regista mette precocemente in campo tutte le forze a sua disposizione, crea sei personaggi potenzialmente nocivi e lascia gli ignari cittadini all’oscuro, insediando il carico di dubbi e angosce sulle spalle dell’unico individuo che conosce la verità, per filo e per segno.

Su questo labile – ma ben condotto – equilibrio, si sorregge l’intero film, filante nel suo mostrare – quasi esclusivamente - al pubblico i potenziali pregiudizi, posizionando sei distinte micce (gli ex galeotti), seminando un panico, costantemente castigato.

Un rigore espositivo che non dimentica di disegnare un contenitore consono alla proliferazione di dubbi e prese di posizione, un distillato omogeneo che s’inietta direttamente nel tessuto sociale, scatenando una fibrillazione che solo chi guarda può percepire fino in fondo.

Un congegno architettato con cognizione di causa, che s’aggrappa alla realtà, trattenendo al suo interno un’energia che potrebbe deflagrare da un momento all’altro, coagulando il tema sociale, la commedia nera e una tensione latente da thriller (mai consumato prima del finale) arrivando ad approdare all’esoterico, peraltro attribuendogli – con riverenza tipicamente orientale – un’importanza che, negli anni della tecnologia, assume un valore rimodulabile sotto infinite spoglie.

Un magma di elementi che Daihachi Yoshida dispone con rigore, senza lasciarsi sfuggire la contingenza di mano, lavorando sulla presunta tranquillità, giostrando sugli specchi (cosa sanno gli spettatori, cosa conoscono gli scacchi che movimenta), sfruttando al massimo un ambient creato con il cesello.

Estremamente intelligente, sobrio per natura, ma anche espansivo quando giunge l’ora di alzare i toni.

Un apparato finissimo.

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