Regia di Roberto Andò vedi scheda film
Una storia come tante.
Con tanti nomi, fatti, misteri, facce, parole, didascalie, pose, archi, (meta)testi, note e postille, spiegoni (il finale; come sempre, due passi oltre il necessario): la narrazione è un simulacro tumefatto di realtà esposte e allegorie adulterate, un intreccio drogato spacciato per indagine critica e disvelamento di identità (del singolo e della collettività), una sceneggiatura tracimante “genialità” spedita a rate nel pacchetto dell'enigma seducente (Andò è il ghost writer di sé stesso, casomai a qualcuno importasse), un insieme di titoli e sentenze, un quadro rubato rimesso a suo posto e nuovamente sottratto per sotterrarlo nel più improbabile dei sottoboschi dello spettacolo.
Così, per creare l'effetto.
L'artefatto.
L'arte dell'artefare si dispiega, con l'insopprimibile boria dell'accademico, in una sorta di sintesi depalmiana/polanskiana che non riesce, mai, a elevarsi dall'apparenza delle cose, dalla crosta del dipinto ricreato dato in pasto ai maiali dell'immaginazione (che non c'è), dall'algida composizione estetica riverniciata da strati e strati di raffinato tutto-nulla, dalla retorica svilente dell'impaginazione rifinita e infiocchettata con mille superflui motivi.
Che (non) celano la caducità dell'idea e della sua messinscena, l'inconsistenza di una materia banalmente modesta, malgrado le continue, assillanti sovrastrutture romanzesche che flirtano con le più celebri detective stories senza ca(r)pirne mai il senso né l'anima né le atmosfere.
Quello che vorrebbe essere uno studio sull'impossibilità di concepire, oggi, nell'epoca del post-tutto, una autentica, solida forma-racconto dentro cui configurare contenuti che attengono alla viscosità del potere, alla predominanza dell'immagine, alla fatua natura dei personaggi in bilico tra inesistenza e interscambiabilità (tutto è già stato scritto, detto, e chiunque può abitare qualsiasi storia) – per cui non esiste(rebbe) altro mo(n)do che l'artificio, la destrutturazione, la (auto)parodia colta, il grottesco –, altro non è che grottesca maniera, contraffatta riproduzione, fantasmatica lettura, risibile teatrino (il siparietto della “seduzione” della protagonista con l'informatico è di raggelante pochezza).
Nevrotica celebrazione di sé.
Una storia senza nome esiste (soltanto) nella sua elegante ed elegantemente mortifera confezione; rappresentazione ammuffita, parossistica, di figurine malamente scritte e di un testo pretenzioso che colleziona e tritura, divora, con la cieca ottusità del dilettante per noia – cianciandone fino allo sfinimento –, temi e capitoli quali verità e finzione, matrice letteraria e (meta)cinema (il film nel film è ferale fiera posticcia, come il film stesso), mafia e politica, giallo e cronaca (il furto de La Natività del Caravaggio), saggistica e satira, showbiz e citazionismo (da Shakespeare a G.B. Shaw fino alla stoccata non richiesta a Lars von Trier).
Opera fasulla come la presenza patetica di una Ramazzotti inqualificabile (in particolare appena apre bocca), come l'andirivieni indisturbato e giocoso nei corridoi e nelle stanze di un Palazzo Chigi “oscura” dimora di omuncoli ridicoli (lo saranno, ma non così, su …) e svuotata sede di riunioni “segretissime” ove dibattere di trattative “Stato-mafia”.
Scene scalpitanti e colpi di scena a ripetizione che scolpiscono ineluttabilmente la fallacia della sofisticata operazione, la facile, scontata decifrazione del testo.
Una storia semplice inutilmente complicata.
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