Regia di Tatsushi Ohmori vedi scheda film
Trattasi di un riuscito thriller sentimentale con echi noir che colpisce per il piglio sicuro con cui - camera spesso a mano - il regista si barcamena in un microcosmo nel quale il denominatore comune di qualsiasi scelta sembra essere la violenza, principale frutto dell'incapacità dell'uomo di controllare e gestire il proprio lato irrazionale.
A Mihama, un'isola al largo di Tokyo, Nobuyuki fa le prime esperienze sessuali con la coetanea Mika, ma vive quasi scortato dal Tasuku, un bambino di dieci anni che, maltrattato a casa dal padre, ha trovato in lui un modello e lo segue ovunque. Lo segue fino ad assistere (non visto) e documentare (con una foto) un omicidio che l'amico compie per difendere la ragazza da uno stupro. Di lì a poco, uno tsunami si abbatte sull'isola e la devasta.
Venticinque anni più tardi, sulla terraferma, i tre hanno preso ciascuno la propria strada: Mika è un'attrice in ascesa, mentre Nobuyuki lavora al municipio del paese ed ha moglie e una figlia, e Tasuku fa l'operaio e, tanto per restare idealmente vicino al'ex amico, si porta a letto la moglie a sua insaputa. Quando il padre di questi, tornato a dar botte e batter cassa, scopre del crimine di cui il figlio è stato testimone e di cui conserva una prova, lo convince a ricattare la ragazza per estorcerle denaro.
IMDb alla mano, And Then There Was Light (Hikari) è l'ottavo lungometraggio di un regista giapponese attivo dal 2005 ma ignoto ai più: Tatsushi Omori, un nome da seguire.
Trattasi di un riuscito thriller sentimentale con echi noir che colpisce per il piglio sicuro con cui - camera spesso a mano - il regista si barcamena in un microcosmo nel quale il denominatore comune di qualsiasi scelta sembra essere la violenza (non necessariamente mostrata), principale frutto dell'incapacità dell'uomo di controllare e gestire il proprio lato irrazionale.
Venato di un erotismo irruento e istintivo, e popolato di personaggi vivi e credibili perché ciascuno legittimo portatore del proprio angolo di follia, il film di Omori si fregia di uno script articolato ma solido, che sembra spesso sul punto di zoppicare ma poi arriva a varcare di slancio la soglia dei 120 minuti, e che non ha timore di fare scelte apparentemente assurde, come quella di inserire di tanto in tanto, tra una scena e la successiva, a mo' di jingle, brevi stacchi di acid house su immagini perlopiù statiche e 'di raccordo' che convenzionalmente si confarrebbero a generi assai meno movimentati.
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